«I programmi delle mie giornate sono puntualmente rivoluzionati dai bisogni di chi mi sta intorno. Ma così imparo a fare spazio ai fratelli e, attraverso loro, a Dio»- Ecco cosa ci scrive padre Natale Brambilla dal Brasile: «Alla sera mi sono sentito consumato, ma felice. Ecco, forse questo è il senso della mia vita in missione».
Lunedì è spesso una giornata difficile. A volte ho l’impressione che alcuni passino il sabato e la domenica elencando problemi da affrontare, per poi scatenarsi il primo giorno della settimana tentando di risolvere tutto. Il risultato è che io ricevo telefonate, richieste, urgenze improrogabili… Eppure il mio lunedì nasce già bello pieno: oltre alla Messa e alla preghiera quotidiana, c’è la visita ai nostri seminaristi. In pratica, resta spazio per ben poco altro.
Non è stato differente una settimana fa. Il Vangelo della domenica diceva: “Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio”. Come viverlo?
Oltre vent’anni fa sono arrivato in Brasile. Da allora ho fatto un po’ di tutto: parroco, animatore vocazionale, amministratore. Oggi mi trovo nella comunità Pime di Ibiporã, 600 km a ovest di San Paolo, insieme a una decina di missionari anziani, alcuni bisognosi di cure. Sono incaricato della cappella pubblica, di animazione, formazione e amministrazione della casa. Un fritto misto. Come vivere questa pagina di Vangelo, nella realtà in cui mi trovo? Ho pensato che “rendere a Dio e a Cesare” significava dare il giusto tempo al Signore, nella preghiera; e dare il giusto tempo al fratello, soprattutto se arriva non previsto.
Quel lunedì è stato un vero banco di prova. Tutto era ben organizzato, cominciavo la giornata con il proposito di non perdere tempo altrimenti non sarei riuscito a fare tutto. Ma ecco che… già durante la preghiera del mattino arriva l’infermiera di casa: imprevisto, un padre dev’essere ricoverato. Si tratta solo di alcuni esami, forse una flebo, ma da solo non può stare e io sono l’unico “disponibile”. Interrompo tutto e vado in ospedale con lui. Mentre guardo le gocce della flebo che scendono lente, mi chiedo se arriverò in tempo in seminario. Scaccio il pensiero, concentrandomi su quanto Dio mi chiede in quel momento: il mio fratello ricoverato è il “Cesare” cui devo rendere quanto spetta.
Finalmente la flebo finisce, possiamo tornare a casa. Sto uscendo di nuovo, quando un anziano padre della comunità mi viene incontro con l’orologio in mano: «Non funziona, forse si è esaurita la batteria, puoi vedere cosa fare? Me lo riporti oggi?». Confesso che la tentazione di dire no è stata forte… ma era “Cesare”, cui dare attenzione. Gli sorrido e rispondo che certo, posso almeno provare. Altri fatti lungo la giornata mi hanno costretto a cambiare i miei programmi per accogliere gli imprevisti. Alla sera mi sono sentito consumato, ma felice.
Ecco, forse questo è il senso della mia vita in missione. Non faccio nulla di straordinario: non testimonio nessuna conversione, niente “primo annuncio”, ma piuttosto un continuo spostare me stesso per fare spazio ai fratelli e, attraverso loro, a Dio. Annunciare il Signore lasciando che sia Lui a costruire la mia giornata. Non sempre ci riesco. Ma sempre ci provo. E, quando lascio entrare Dio nella mia quotidianità, la missione diventa trasparenza di Lui.