Alla vigilia del voto del 7 gennaio, il Paese è scosso dalle proteste dei lavoratori tessili, che chiedono un salario dignitoso. Ma a manifestare, malgrado la repressione, sono anche le opposizioni, in un contesto sempre più autoritario
Hartal e oborodh: sono due le parole d’ordine che, chiamando alla sospensione di qualunque attività o ai blocchi forzati dei mezzi di trasporto, da settimane paralizzano le strade di Dacca. E mentre i partiti che contestano l’autoritarismo della premier bangladese Sheikh Hasina fanno appello al boicottaggio delle elezioni il 7 gennaio, queste stesse strade sono tornate a macchiarsi di sangue. Non solo quello dei manifestanti legati alle opposizioni politiche, dispersi con violenza dalle forze dell’ordine. Tra le vittime della brutale repressione, infatti, ci sono anche migliaia di lavoratori – e soprattutto lavoratrici – del settore tessile, mobilitatisi come mai prima per dire basta a paghe da fame e condizioni di impiego critiche. Tra Gazipur e Ashulia, Savar e Mirpur, l’intera area industriale a nord della capitale si è infiammata per le proteste degli operai che rivendicano l’aumento del salario minimo: scioperi e disordini hanno portato alla chiusura di centinaia di fabbriche, mentre la reazione delle forze di sicurezza ha provocato la morte di almeno quattro manifestanti e moltissimi feriti, oltre ad arresti di attivisti, tra cui il leader del movimento Babul Hossain, e migliaia di incriminazioni per vandalismo.
Lo scontro sulle retribuzioni riguarda quattro milioni di lavoratori tessili del Paese, per la grande maggioranza donne, manovalanza essenziale di un settore che rappresenta oltre l’80% dell’export e circa il 18% del prodotto interno lordo nazionale. Il Bangladesh, infatti – con i suoi 170 milioni di abitanti – è uno dei maggiori produttori mondiali del cosiddetto fast fashion, la moda veloce e a basso costo: ogni anno fornisce milioni di tonnellate di capi di abbigliamento per soddisfare la domanda dei marchi più famosi al mondo (tra questi Zara, Levi’s, H&M, Gap e molti altri), attratti da una manodopera estremamente economica.
Il rovescio della medaglia dei nostri armadi pieni con pochi euro, però, sono le condizioni misere delle lavoratrici impiegate nelle 3.500 fabbriche tessili nel Paese del Sud-Est asiatico. Dieci anni fa, il tragico crollo del Rana Plaza a Savar, nella Grande area di Dacca, con 1.138 operai morti e oltre 2.600 feriti e invalidi per la vita, fece scoppiare agli occhi dell’opinione pubblica mondiale lo scandalo dell’anello più debole dell’industria della moda. Da allora, alcuni passi in avanti sono stati compiuti. In particolare, eredità di quel trauma nazionale è l’accordo sulla sicurezza e la prevenzione degli incendi negli stabilimenti. Ma nella pratica sono ben pochi a beneficiare di standard accettabili: spesso i ritmi di lavoro restano massacranti, in luoghi pericolosi e fatiscenti, mentre le paghe sono al limite della sopravvivenza.
È partito proprio da qui il braccio di ferro dei sindacati del settore, che nei mesi scorsi hanno chiesto di aumentare il salario minimo dagli attuali 8.000 taka mensili (circa 66 euro, uno dei più bassi al mondo) a 23.000 (205 euro), per far fronte all’impennata dei prezzi dei beni alimentari, alla svalutazione della moneta rispetto al dollaro e all’inflazione record, che oggi sfiora il 10%. Produttori ed esportatori, tuttavia, per bocca della Bangladesh Garment Manufacturers and Exporters Association, si sono detti disponibili ad arrivare al massimo a 10.400 taka, meno della metà di quanto chiesto dagli operai. A esacerbare ancor di più gli animi è arrivata la proposta del governo: 12.500 taka al mese, dal 1° dicembre.
Le lavoratrici e i lavoratori hanno respinto l’offerta tornando in piazza nonostante le minacce e le violenze sia dei padroni sia della polizia, che ha usato gas lacrimogeni e proiettili di gomma sulla folla, arrivando persino a sparare contro i manifestanti. Ma la premier Hasina resta irremovibile, rimarcando la necessità di non fare implodere un sistema vitale per la sussistenza di milioni di persone: «Se queste fabbriche vengono chiuse e la produzione e le esportazioni interrotte – ha affermato – dove saranno i loro posti di lavoro? Dovranno tornare tutti nei loro villaggi».
Padre Francesco Rapacioli, missionario del Pime in Bangladesh e superiore regionale dell’Area Asia Meridionale, ammette che le preoccupazioni di Hasina sono comprensibili: «Il governo ha accettato di raddoppiare lo stipendio minimo nel settore tessile, ma è vero che il rischio di ulteriori aumenti potrebbe essere la perdita di competitività rispetto a Paesi come India e Cina, con la conseguente chiusura di molte aziende». Una prospettiva grave, non solo per le ovvie ripercussioni sul tenore di vita di milioni di famiglie: «Lo sviluppo del tessile in Bangladesh – spiega padre Rapacioli -, nonostante le precarie condizioni di sicurezza ancora diffuse, ha rappresentato una piccola rivoluzione per moltissime donne, che hanno potuto guadagnare, insieme a uno stipendio, la libertà di essere autonome e di fare le proprie scelte. Una svolta non solo materiale ma anche culturale».
A prendersi le proprie responsabilità, oggi, dovrebbero essere in primo luogo i grandi brand internazionali, che sullo sfruttamento della manodopera hanno costruito la loro fortuna. «Se i marchi si impegnassero ad assorbire il costo dell’aumento salariale, pagando di più i fornitori, i lavoratori non sarebbero costretti a scendere in strada a protestare», ha dichiarato Bogu Gojdz, portavoce della Clean Clothes Campaign (“Campagna abiti puliti”), con sede nei Paesi Bassi.
Anche i diritti, tuttavia, in Bangladesh vengono strumentalizzati a fini politici. E c’è chi, dietro alle proteste sindacali, ha visto la mano del Partito nazionalista del Bangladesh (Bnp), il principale gruppo di opposizione, che promette di boicottare le elezioni di gennaio se il governo guidato da Hasina, leader della Awami League al potere dal 2009, non verrà sostituito da un esecutivo ad interim fino al voto.
Per padre Rapacioli «se è fuor di dubbio che i lavoratori del tessile stanno rivendicando autonomamente i propri diritti, non è da escludere che le opposizioni come il Bnp e gli islamisti di Jamaat e-Islam stiano cavalcando il malcontento degli operai. Il che spiegherebbe anche la brutalità della repressione».
Ciò che è certo è che il Paese arriva alle elezioni in un clima più che mai teso, schiacciato dall’autoritarismo crescente dispiegato dalla premier. Denuncia il giovane attivista e giornalista bangladese Anupam Debashis Roy: «Negli ultimi mesi abbiamo assistito a continui arresti di intellettuali, studenti, giornalisti, mandati in carcere senza nemmeno un processo. Il dissenso verso il regime non è tollerato, in alcuna forma». A maggior ragione alla vigilia di elezioni contestatissime: «I principali partiti di opposizione intendono non partecipare a un voto che non potrà essere equo. La Awami League sta facendo di tutto per assicurarsi di restare al potere, in una farsa che della democrazia mantiene solo la facciata. Per esempio, sono nati molti partiti fasulli che in realtà hanno legami con la formazione della premier e pullulano i candidati fantoccio solo per fingere una pluralità che nei fatti non esiste».
Non sorprende che, in questo contesto, la nuova generazione sia sfiduciata. «Dopo le mobilitazioni dello scorso decennio – osserva il giornalista – oggi i giovani sembrano meno attivi. Sono senz’altro delusi per l’immobilismo dello scenario politico e demoralizzati per il clima repressivo; probabilmente c’è chi si è rassegnato a supportare i partiti di opposizione, rinunciando a proporre piattaforme autonome e innovative, e anche chi si è avvicinato al partito al potere, stanco di restare emarginato. È vero, il futuro oggi appare cupo, ma non dimentichiamo che proprio i giovani, in passato, sono sempre stati quelli che hanno fatto la storia del Bangladesh. Quindi potrebbero sorprenderci: c’è sempre una speranza».