Dopo l’ultima offensiva dell’Azerbaigian, l’autoproclamata Repubblica autonoma è stata cancellata e centomila abitanti sono fuggiti in massa, soprattutto verso l’Armenia. Dove «la situazione è critica», racconta il presidente della Caritas
Dal primo gennaio il Nagorno Karabakh non esiste più. Questa terra adagiata sui monti del Caucaso meridionale, culla di un antico popolo di etnia armena e di fede cristiana, è stata ufficialmente cancellata dalle cartine. E la sua gente, dopo il violentissimo attacco dell’esercito azero lo scorso 19 settembre, ha abbandonato in fretta case e averi. Tutta, a parte poche decine di anziani che – dicono – vogliono morire lì dove hanno sempre vissuto, proprio come i loro avi, da generazioni. «In pochi giorni, oltre centomila persone si sono riversate oltre il confine: abbiamo cercato di accoglierle dignitosamente, ma la situazione è critica», racconta il direttore della Caritas armena Gagik Tarasyan. «Oggi, in ventimila sono riusciti a raggiungere la Russia o qualche Paese europeo, ma gli altri sono ancora qui e molto probabilmente resteranno a lungo termine».
Quello in corso è solo l’ultimo, tragico atto della tormentata vicenda dell’autoproclamata Repubblica dell’Artsakh – l’antico nome armeno dell’area -, trascinatasi tra conflitti e tregue armate per decenni. Questa regione, che per secoli era riuscita a ritagliarsi un’autonomia sotto le dominazioni di persiani e romani, bizantini e arabi, turchi, tatari, russi e azeri, ai tempi dell’Unione Sovietica diventò un’oblast inserita nella Repubblica socialista dell’Azerbaigian, pur essendo abitata al 97% da armeni. Fu solo con la perestrojka che i suoi abitanti chiesero l’indipendenza e l’annessione all’Armenia. Ne nacquero gravi tensioni, pogrom e guerre. La prima (dal 1992 al 1994) fu vinta dagli armeni, ma negli anni seguenti il conflitto restò congelato e i negoziati inconcludenti, finché l’offensiva azera dell’autunno 2020 segnò la sconfitta delle forze del Karabakh e la perdita di molti distretti, compresa la città simbolo di Sushi.
«Quell’aggressione provocò, tra gravi violazioni del diritto internazionale, più di 5.000 vittime», ricorda Tarasyan. Che sottolinea: «La Dichiarazione trilaterale sul cessate il fuoco, firmata il 9 novembre 2020 dal primo ministro armeno Pashinyan, dal presidente azero Aliyev e da Vladimir Putin, prevedeva tra l’altro la sicurezza della circolazione di cittadini e merci attraverso il corridoio di Lachin, l’unica strada che garantisce il collegamento del Nagorno Karabakh con l’Armenia e il resto del mondo».
Ma le cose, nell’ultimo anno, sono andate molto diversamente. «Dal 12 dicembre 2022 fino all’attacco dello scorso settembre l’autostrada Goris-Stepanakert, che attraversa il corridoio di Lachin, è stata chiusa dall’Azerbaigian: per quasi dieci mesi, a causa del blocco, tutti gli abitanti, tra cui 30 mila bambini, hanno sofferto per la grave carenza di cibo, medicine, beni di prima necessità, ma anche carburante ed energia elettrica». Sono queste stesse persone, già esauste per il lungo periodo di isolamento, a essere fuggite in massa in seguito all’ultima offensiva azera su larga scala, che nel solo primo giorno di attacco ha provocato 200 morti e più di 400 feriti. Per evitare una tragedia di dimensioni mai viste prima, i dirigenti locali armeni hanno dovuto accettare la resa: il patto, concordato con i rappresentanti azeri e con la Russia, include il completo disarmo delle forze di autodifesa e lo scioglimento delle autorità dell’enclave. Quando, il 24 settembre, la strada verso il mondo esterno è stata finalmente riaperta, sono bastati pochi giorni perché gli abitanti dell’Artsakh lasciassero in massa la loro patria, nel timore che proprio in quella terra, dove tanto profondamente sono impresse la cultura, l’arte e la fede del popolo armeno, per questo popolo non ci sia più spazio.
«La nostra famiglia ha dovuto affrontare il terzo spostamento forzato in pochi anni», racconta Razmela, che con il marito e i sei figli ha trovato rifugio a Erevan, la capitale dell’Armenia, grazie al supporto della Caritas. «Fino alla guerra del 2020 vivevamo ad Avetaranoc, un villaggio nella regione di Askeran, dove avevamo una bella casa e lavoravamo come agricoltori», ricorda la donna. «Poi, l’area è stata occupata dall’Azerbaigian e siamo scappati in Armenia. Mesi dopo, siamo rientrati in patria per stabilirci a Dahrav, dove abbiamo comprato una piccola casa e l’abbiamo ristrutturata con i nostri risparmi: lì abbiamo fatto partire una nuova attività di allevamento e agricoltura. Non immaginavamo che avremmo dovuto rivivere la terribile esperienza di essere sfollati».
E invece, Razmela e la sua famiglia non hanno avuto scelta. Insieme al suocero – e portando con sé anche il loro cane – in nove hanno viaggiato per 26 ore su una vecchia auto dell’epoca sovietica, fino a raggiungere di nuovo l’Armenia. «Ma questa volta abbiamo perso tutto ciò che avevamo costruito in una vita intera – sospira. Attualmente viviamo in un minuscolo appartamento di 20 mq e il mio figlio maggiore guadagna qualcosa lavorando nel settore edile, ma purtroppo mio marito ha problemi di salute e per me è molto difficile trovare un impiego, quindi sopravviviamo grazie all’aiuto di alcune organizzazioni umanitarie».
Fin dall’inizio dell’emergenza, la Caritas si è mobilitata per far fronte agli enormi bisogni dei profughi, integrando i suoi interventi con quelli del governo – sostenuto dai finanziamenti dell’Unione Europea e di Paesi come Stati Uniti e Canada – e delle ong locali ed estere. Racconta il direttore: «Nelle prime settimane abbiamo dovuto rispondere alle esigenze di base, fornendo pasti caldi a oltre cinquemila persone, acqua, coperte e lenzuola, ma anche assistenza medica e psicologica e un riparo nell’immediato. Con l’arrivo dell’inverno, poi, ci siamo dovuti organizzare per venire incontro in particolare ai gruppi più vulnerabili, come gli anziani, i bambini e le persone con disabilità: tra l’altro aiutiamo a pagare le bollette dell’elettricità e distribuiamo voucher da utilizzare nei supermarket. Grazie a un progetto sostenuto da Caritas Internationalis stiamo assistendo circa seimila sfollati tra Erevan e le province di Syunik – al confine con l’Azerbaigian – e di Ararat, dove in molti si sono stabiliti perché il clima è più mite».
Ma dopo la fase iniziale dell’accoglienza emergenziale arriverà quella, ancora più complessa, di un’integrazione sostenibile, visto che «molti di questi profughi sono destinati a rimanere a lungo termine». L’imperativo, quindi, si sposta verso «la creazione di una fonte di reddito affidabile, con il supporto all’occupazione e all’imprenditorialità, e il reperimento di alloggi adeguati». Non si tratta di una prospettiva facile: oggi i rifugiati costituiscono quasi il 3% dell’intera popolazione armena. «E anche la gente locale, in particolare nel Nord del Paese, vive in condizioni sociali molto precarie, per non parlare dei ventimila profughi del precedente conflitto, che spesso abitano ancora nei container», sottolinea Tarasyan. L’attuale impennata di richieste di alloggi, che si somma agli effetti dell’arrivo di migliaia di russi in seguito alla guerra in Ucraina, ha fatto lievitare i prezzi delle case, con evidente scontento della gente.
«Il massiccio afflusso di questi disperati dall’Artsakh – riflette il direttore della Caritas – è destinato ad avere un impatto di vasta portata sul panorama socioeconomico del Paese, che è già estremamente vulnerabile per varie ragioni, soprattutto la dipendenza da fattori globali al di fuori del suo controllo, tra cui il cambiamento climatico, le interruzioni della catena di approvvigionamento e le fluttuazioni dei tassi di cambio».
E mentre la crisi degli sfollati del Nagorno Karabakh è passata in secondo piano nella consapevolezza della comunità internazionale – e in quella dei donatori -, concentrata sulla tragedia ucraina e sul Medio Oriente in fiamme, l’opinione pubblica a Erevan non nasconde il malumore per la scelta del presidente Pashinyan di rinunciare a una terra simbolo per la memoria collettiva armena. Si teme la distruzione di antichi monasteri, delle chiese, dei cimiteri con le loro khachkar, le tradizionali croci scolpite nella pietra. Il presidente azero ha promesso una “reintegrazione pacifica” con “pari diritti e libertà per tutti, a prescindere dalla fede”. Ma le parole di Aliyev non hanno potuto cancellare la sua immagine mentre calpestava la bandiera dell’Artsakh e innalzava quella dell’Azerbaigian nella capitale deserta Stepanakert, dopo aver ribattezzato la sua via principale in onore di Enver Pasha, uno dei triumviri organizzatori del genocidio armeno del 1915.