Missionari, pellegrini di speranza
Il Giubileo 2025 chiama in causa le frontiere della missione. Per ripartire dallo stile di Gesù e rendere tangibile il suo annuncio di pace e giustizia
«La speranza non delude» è il titolo della Bolla di indizione del Giubileo 2025, segnato da due ricorrenze significative anche per la missione: i 1.700 anni del Concilio di Nicea e la celebrazione insieme – cristiani d’Oriente e d’Occidente – della Pasqua il 20 aprile. La prima ricorrenza è importante perché – di fronte ai ripetuti tradimenti dello stile evangelico – ci fa presente la necessaria continua conversione dei missionari al principio cristologico, senza il quale non c’è evangelizzazione. Detto altrimenti, i missionari sono “segni di speranza” solo se rimangono ancorati allo stile umile e povero della missione di Cristo. La seconda ci invita a ridurre l’ambivalenza della prassi missionaria, presente anche nelle pagine più belle della missione. Basti pensare al pregiudizio anti-ecumenico e anti-religioso, che fino al Vaticano II condannava le altre Chiese e religioni ai margini della storia della salvezza.
Anche il Giubileo 2025 si connette con la categoria del pellegrinaggio: solo dei missionari “pellegrini”, viandanti, capaci di staccarsi dalla propria cultura, patria, famiglia, saranno in grado di avventurarsi nell’affascinante e rischioso viaggio alla scoperta di mondi sconosciuti già abitati dalla speranza, grazie all’azione e alla presenza dello Spirito, che precede l’arrivo e la presenza della Chiesa. Basti pensare al ruolo del primo grande “movimento missionario”, quello monastico, dal V al XII secolo. Spinti dal desiderio di santificarsi secondo la tipica forma del “martirio bianco” (l’ascetismo), i monaci – come nel caso dell’irlandese san Colombano e discepoli – abbandonavano il loro monastero e andavano di luogo in luogo ad annunciare la parola di Dio, senza fare più ritorno, come in un volontario esilio. Questo movimento missionario, come pellegrinaggio per amore di Dio e di Cristo, fu fortemente innovativo sia per la santificazione personale, sia per l’evangelizzazione dell’Europa.
Ma la particolarità di quest’anno giubilare consiste nel porre “segni di speranza”, capaci di renderla reale, evidente, tangibile, non solo a livello personale, ma anche sociale; non solo in una parte del mondo, ma a livello globale. La Bolla invita a «porre attenzione al tanto bene che è nel mondo per non cadere nella tentazione di ritenerci sopraffatti dal male e dalla violenza» (n. 7). I segni dei tempi chiedono di essere trasformati in “segni di speranza”. Come? Osando la pace in tempo di guerra; non perdendo il desiderio di trasmettere la vita nell’inverno demografico; privilegiando la giustizia riparativa rispetto a quella punitiva per i detenuti… Meritano attenzione – per la sintonia con Levitico 25,8-17 – l’appello a costituire, col denaro speso per le armi, un fondo mondiale per eliminare la fame e l’invito a condonare il debito dei Paesi che non possono ripagarlo: «Se vogliamo preparare la via della pace, impegniamoci a rimediare alle cause remote delle ingiustizie» (n. 16). Davvero la speranza non delude, ma ricolma i nostri cuori missionari.