Il 7 giugno il Papa sarà in Bosnia Erzegovina, teatro di una guerra fratricida finita 20 anni fa. Ma che ha lasciato strascichi sempre più urgenti da affrontare
Ines mescola nervosamente il suo succo di frutta con la cannuccia. Seduta a un tavolino del Kino Meeting Point sulla sponda sud della Miliacka, nel centro di una Sarajevo assolata, riepiloga i tentativi di attivismo civico andati in scena nel Paese balcanico che, in bilico tra le consuete criticità sociali, economiche e politiche e un nuovo allarme terrorismo di matrice islamista che ha riacceso timori mai davvero sopiti, si prepara ad accogliere Papa Francesco.
Ma mentre racconta gli esperimenti di democrazia diretta dei “Plenum dei cittadini”, di cui proprio Ines Tanovic è stata tra le principali animatrici, così come le iniziative di solidarietà trasversali fiorite dal basso nel mezzo della disastrosa alluvione dell’anno scorso, il racconto scivola spesso sulle ferite aperte lasciate da una guerra che pure, formalmente, è finita vent’anni fa. E il tono del discorso tradisce tutta l’esasperazione di una quotidianità immobile che appare, oggi, l’unico elemento condiviso da qualunque bosniaco senza distinzioni di fede o etnia: quell’etnia dalla dubbia base scientifica che pure tutti qui si ostinano a definire nientemeno che “nazione”. E non importa se la nazione, fino a prova contraria, dovrebbe essere una sola per tutti quanti: la martoriata e resiliente Bosnia Erzegovina.
La realtà, invece, è ben più complicata. E per spiegarla spesso si fatica a scegliere da che parte cominciare. Così come capita a Ines, che non può evitare di passare continuamente dalla cronaca alla sua storia personale: gli studi in Arte portati avanti in mezza Europa mentre la ex Jugoslavia bruciava, la scelta di tornare a Sarajevo due anni fa e lo spettro di un conflitto che ha rubato i sogni di un’intera generazione – Ines vi ha sacrificato l’infanzia e il papà, devastato da due anni di campo di detenzione in Croazia -, lasciando un popolo «apatico e depresso».
«Quando mi trasferii qua lo shock fu pesante», racconta la giovane attivista dell’organizzazione Akcija Sarajevo, che riunisce 120 associazioni operative in vari campi della cultura. «Mi scontrai con la miseria della gente, con i traumi di una popolazione che non ha mai accettato di curarsi dal punto di vista psicologico, con una politica farsesca fatta di corruzione e manipolazione. Fui tentata di rinchiudermi nel mio microcosmo per non soccombere».
Poi, però, successe qualcosa: «Dopo che per due anni, a Tuzla, ogni giovedì gli operai avevano manifestato davanti alla sede del governo cantonale per protestare contro la situazione drammatica dell’occupazione, all’improvviso, grazie anche al contributo dei social media, la mobilitazione si allargò ad altre città: Zenica, Mostar… E anche a Sarajevo scendemmo in piazza». Nel contesto delle proteste, che guadagnarono i titoli dei media internazionali come primo esempio di iniziativa trasversale alle comunità dai tempi della Jugoslavia, nacque l’esperienza dei “Plenum”: assemblee in cui i cittadini condividevano problemi e proposte di soluzioni, nella forma della democrazia diretta.
In poche settimane, però, la forza propulsiva della mobilitazione si esaurì. «Perché? Scattarono alcuni meccanismi che non siamo ancora riusciti a superare», spiega Ines. «Alla base c’è la paura ossessiva di ripiombare nel caos: quando la sede del governo cantonale fu incendiata, la gente cominciò a fare scorte di beni di prima necessità nei supermercati, come riflesso condizionato dai tempi della guerra. I media, quasi tutti influenzati da gruppi di potere, soffiarono sul fuoco, rilanciando le accuse dei politici che definivano i manifestanti “terroristi” e accreditando la lettura secondo cui l’obiettivo delle proteste era la revisione del sistema statale definito dagli accordi di Dayton dopo la guerra».
QUALUNQUE tentativo di cambiamento, infatti – sebbene il sistema attuale sia evidentemente fallimentare -, rappresenta una minaccia per i vertici politici, che proprio sulla melma istituzionale hanno prosperato, ingrassando con gli aiuti alla ricostruzione mentre la gente non aveva da mangiare e coltivando lucrosi affari personali, spesso ai danni dei cittadini, come dimostrano i disastrosi processi di privatizzazione del dopoguerra. I modernissimi edifici e i centri commerciali che fioriscono in città, uno su tutti il mega mall Bbi Centar che oggi si affaccia spavaldo sul viale intitolato al maresciallo Tito, sono al tempo stesso la prova tangibile del flusso di denaro che attraversa la capitale e uno schiaffo alla maggioranza di abitanti che in quei caffè e negozi di lusso non potrà mai mettere piede.
È l’economia surreale della Bosnia, quella degli approfittatori della “zona grigia” balcanica e della cooperazione inefficace o interessata. Categoria in cui rientrano talvolta anche le sovvenzioni provenienti da Paesi musulmani, dalla Turchia al Qatar, dall’Iran all’Arabia Saudita, che instaurano o rinsaldano legami non solo commerciali nei quali qualcuno vede il rischio di forme di colonizzazione, anche religiosa. La grande moschea wahhabita dedicata a re Fahd, finanziata dai sauditi, è stata al centro di polemiche per le presunte attività di reclutamento di aspiranti jihadisti per lo Stato islamico. E se tra le vie ottomane di Bascarsija, battute da frotte di turisti, l’atmosfera è rilassata e i giovani fumano indisturbati il narghilè ai tavolini sistemati sull’acciottolato, è innegabile che l’odio religioso eredità del conflitto, ma soprattutto una disoccupazione giovanile che supera il 50%, rappresentino un terreno di coltura favorevole per chi predica la guerra santa.
La prima preoccupazione di monsignor Pero Sudar, tuttavia, resta la paralisi istituzionale, alla base della stessa stagnazione economica. «Questi due decenni intrappolati in un sistema iniquo ci hanno tolto la speranza, che non avevamo perso nemmeno durante la guerra!». Se la prende con la comunità internazionale «indifferente alle sorti della Bosnia Erzegovina» il vescovo ausiliare di Sarajevo, noto per la sua instancabile opera di ricostruzione della società a partire dai mattoni più importanti: gli studenti. Non a caso, il “quartier generale” di monsignor Sudar è il Centro scolastico Sv. Josip, poco distante dalla cattedrale del Sacro Cuore ma anche da quel mercato di Markale che incarna una delle cicatrici urbane della guerra: le immagini in diretta tv dei corpi mutilati tra i bancali di ferro, in due orribili stragi nel ’94 e nel ’95, ricordarono al mondo il tributo di sangue pagato all’assedio dai sarajevesi, oltre 12 mila vittime in mille giorni.
Ma quella che per secoli ha rappresentato la Gerusalemme d’Europa continua a soffocare oggi. «Dopo aver vissuto la guerra, sempre ingiusta, viviamo anche l’ingiustizia di una pace che non ci permette di guarire e rinascere dalle nostre ceneri», afferma il vescovo. «Lo Stato creato a Dayton, diviso tra Repubblica serba e Federazione croato-musulmana e in cui i cattolici sono condannati all’irrilevanza politica, è insostenibile e iniquo». E – ciò che è peggio – «approfondisce il solco tra le comunità etnico-religiose». Basti pensare che, in Bosnia, ogni “nazione” ha la propria versione del passato, e i ragazzi a scuola studiano tre storie diverse. Il che impedisce la costruzione di uno sguardo condiviso su presente e futuro.
È per evitare questa deriva che, già ai tempi dell’assedio, monsignor Sudar inventò il modello delle “Scuole per l’Europa” (oggi 14 nel Paese, frequentate da 4.766 allievi), in cui i ragazzi studiano insieme a prescindere dalla comunità di appartenenza (al 70% sono cattolici ma in certi casi, come nella scuola per infermieri di Sarajevo, i musulmani sono la maggioranza).«È un segno per mostrare con i fatti – visto che la gente è esasperata dalle parole! – che persone diverse possono vivere insieme, specialmente se credono in Dio, perché la fede ci porta a vedere ogni uomo come un fratello».
Ma nei cuori dei bosniaci, in ultima analisi, questa nazione comune esiste davvero? Il prelato sospira. «Sì, ma è una grande prova. Da sempre, infatti, siamo tentati di pensare che, se vogliamo vivere insieme, dobbiamo perdere qualcosa della nostra identità».
È il mantra ripetuto dai partiti di ispirazione nazionalistica, che hanno di nuovo trionfato alle elezioni dello scorso ottobre. Mancanza di alternative credibili? Le opinioni sono diverse. Se per molti analisti il movimento di protesta è stato incapace di concretizzarsi in una proposta politica convincente, non pochi cittadini comuni ammettono le contraddizioni di una società ancora immatura. Alma, amica di vecchia data tornata a vivere a Sarajevo dopo la fine della guerra, confida: «Quando si avvicinano le elezioni, pare che la gente sia pronta a sperimentare progetti politici diversi, ma poi sopraggiunge il timore di perdere il potere contrattuale garantito da una rappresentanza compatta su base comunitaria, e si torna a votare in massa per “i propri”».
Un’analisi condivisa da Josip, architetto emigrato negli anni Settanta. «Oggi, quando torno, la prima cosa che mi viene chiesta è il nome, con l’intento di identificare subito la mia appartenenza etnica… La Bosnia purtroppo è cambiata ». Senza speranza? «Beh, la speranza la vedo nei giovani che certe cose non le hanno vissute. Come mio nipote, che l’anno prossimo inizierà gli studi all’Università europea di Sarajevo: lì la preparazione è d’eccellenza, un’ottima chance per il futuro». A patto che il nipote di Josip non decida di aggiungersi al fiume di cervelli in fuga – 68mila nell’ultimo anno – che di fronte all’assenza di prospettive si rassegnano a rinunciare alla scommessa di una Bosnia Erzegovina in grado di rinascere. Perdere questa scommessa, tuttavia, sarebbe una tragedia.
Non solo per il Paese ma per l’intera Europa, che un secolo fa da qui vide divampare la follia distruttrice della Grande guerra. E che di un luogo di convivenza plurale, al crocevia di un Occidente disorientato e di un Medio Oriente in fiamme, oggi ha bisogno come dell’aria.