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Il mio sogno di una Chiesa «india»

FRONTIERA OIAPOQUE
«Di fatto, dopo 500 anni di evangelizzazione, ancora non abbiamo una Chiesa indigena per mancanza di preti e diaconi»
Un catechista indio mi diceva: «Padre, sono trent’anni che lavoro nella Chiesa spiegando la Parola di Dio, presiedendo il culto alla domenica quando non c’è il sacerdote. Però per i sacramenti dipendiamo dal padre che viene da fuori. Un collega indio, qui al villaggio, ha lasciato la Chiesa cattolica e adesso è protestante. Tempo fa è sparito per tre mesi. Quando è ritornato era pastore nella nuova Chiesa. Ora dirige il culto, predica, battezza, fa sposalizi, riceve le offerte e amministra la sua Chiesa. E noi continuiamo ad essere solo “chierichetti” del padre». Di fatto, dopo 500 anni di evangelizzazione, ancora non abbiamo una Chiesa indigena per mancanza di ministri. Preti e diaconi si possono contare sulle dita delle mani. Dai candidati al sacerdozio la Chiesa esige anni di seminario lontani dal proprio popolo e il celibato che contrasta con la loro cultura. Anche il cammino di inculturazione incontra molti limiti, e la Chiesa tra gli indios si presenta più occidentale che indigena. Il cardinale brasiliano Claudio Hummes ha ricordato che il Papa insiste perché si ordinino più diaconi sposati permanenti indigeni, che nelle loro comunità siano responsabili a tutti gli effetti della pastorale e non semplici incaricati del sacerdote. Se oggi è difficile avere preti indios, è però possibile preparare indigeni che avanzino in questo cammino. È quello che ci proponiamo di fare attualmente, preparando dirigenti e catechisti, specialmente coppie, per proclamare la Parola di Dio, essere ministri del battesimo e del matrimonio e lavorare nelle comunità. È quello che chiedo al Signore prima di morire: la grazia di vedere le Chiese indigene autonome, con i loro ministri. Il Signore ci illumini e ci dia coraggio, affinché noi stessi non siamo di ostacolo a quello che vuole per la sua Chiesa.  

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