LA RIFLESSIONE
Questa prima contaminazione del divino con l’umano determina tutte le altre
Nello studio della lingua cambogiana una parte consistente di tempo è dedicata al vocabolario che bisogna usare quando ci si rivolge ai monaci buddhisti. Non bastano infatti le parole ordinarie, ma vi sono verbi e parole diversi, usando i quali si afferma la dignità del monaco. Quest’ultimo, a sua volta, deve usare un vocabolario che, allo stesso modo, preserva la sua dignità. Anch’io, che sono cristiano e sacerdote, ho dovuto studiare questo vocabolario e ora, se mi rivolgo a un monaco, devo usarlo e stare attento a non scadere nell’ordinario. In tal caso mancherei di rispetto e farei la figura dell’ignorante. Trovo che questa questione del linguaggio sia fondamentale per mantenere il senso delle cose e non “sciupare” l’altro con parole leggere, vuote. La lingua è il primo argine alla banalità, ci aiuta a preservare la dignità di ogni persona di fronte alle spinte della modernità che tende ad appiattire, a imporre il “tu”, fino a omologare la ricchezza delle culture in un tutto senza identità.
Qualche giorno fa, presso la nostra scuola media, il professore di lingua e letteratura khmer, per rendere divertente e partecipato il processo di apprendimento, ha chiesto ai ragazzi di mettere in scena un ipotetico incontro tra loro e un monaco. Uno di loro avrebbe impersonato un monaco buddhista e alcuni altri avrebbero dovuto usare il vocabolario appropriato. Apprendere facendo: questo era l’intento. Ebbene, una ragazza di religione musulmana si è rifiutata perché avrebbe dovuto, seppur nella messa in scena, pronunciare parole che non appartengono alla sua tradizione religiosa, ne avrebbero compromesso il rigore fino a contaminarne la purezza. Nel pomeriggio anche i genitori sono venuti a lamentarsi. Da parte nostra, abbiamo cercato di spiegare che la scuola è un luogo dove dovrebbero prevalere la tolleranza, la conoscenza reciproca, la libertà, l’affermazione di sé attraverso l’affermazione dell’altro, la ricerca di un’identità forte ma non rigida. Diversamente, che dire di me? Che imparando e usando quel vocabolario “monastico” ho ceduto alla maggioranza buddhista e ho prestato il fianco a contaminazioni lesive della mia identità cristiana?
In realtà io, come tanti altri missionari, ho accettato di buon grado lo studio del vocabolario per i monaci senza temere alcuna contaminazione della mia fede. In quanto missionari abbiamo studiato e parliamo la lingua cambogiana perché spinti dalla fede a immergerci nella cultura di questa patria di adozione. Non trattenuti quindi, bensì “spinti” dalla fede. Nondimeno, dobbiamo riconoscere che spesso le religioni amano i distinguo fra sacro e profano, puro e impuro, lecito e non lecito, giusto e peccatore, sviluppando spesso un atteggiamento difensivo e rigido.
Per quel che mi riguarda, il cristianesimo è diverso. Perché all’origine della fede cristiana c’è una radicale contaminazione: «Quando venne la pienezza del tempo – scrive Paolo (Gal 4,4) – Dio mandò il suo figlio, nato da donna, nato sotto la legge». Questa prima contaminazione del divino con l’umano determina tutte le altre. Per noi missionari, lo studio della lingua e della cultura di un popolo nasce da questa volontà di Dio di venirci incontro e di parlarci come si parla ad amici. In Gesù Cristo venuto nella carne, Dio per primo si è contaminato di noi”!
Ancora una volta Paolo con la lettera ai Galati ci spinge all’origine del cristianesimo, a quei primi passi che ne determineranno lo stile futuro. Di fronte ad una religiosità fatta di distinguo (pensate alla dialettica tra circoncisi e no, tipica della lettera), Cristo non teme il profano, l’impuro, il contaminato, «diventando lui stesso maledizione» (Gal 3,13). «Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo trattò da peccato in nostro favore, perché noi potessimo diventare per mezzo di lui giustizia di Dio» (2Cor 5,21).
E non ha temuto quindi di nascere da una donna e nascere sotto le stelle, purché anche noi «ricevessimo l’adozione a figli». Figli non perché obbedienti alla legge, meritevoli più di altri, ma perché Dio «mandò nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio, il quale grida: “Abbà! Padre!”» (Gal 4,6). Siamo figli ed eredi per grazia di Dio.
Lo scrittore Davide Rondoni, in un suo volume di poesie, non teme di definire questa attitudine a contaminarsi e a rifiorire dalle contaminazioni, “la natura del bastardo”. Nel mistero dell’incarnazione, Dio non rimane lontano, assorto nei suoi pensieri eterni, ma scende, si china come un “povero girasole” sui crinali di questo mondo, accettando quel “micidiale snaturamento” che lo porta a latitudini opposte, non più divine, ma umane, “troppo umane”… accanto ai volti di ogni giorno, spesso «dipinti nello schifo e nella luce». Eppure lì «il Verbo, sorride, viene dal profondo /del cielo e della natura, stupisce i vivai di comete, le piogge bianche del sole /e si fa carne, ama da morire, ha un volto /un volto… imbastardisce pure lui…» (Dio non è lontananza).
Altrettanto fa l’apostolo Paolo che come il suo Dio non teme di contaminarsi: «Mi sono fatto servo di tutti per guadagnarne il maggior numero: mi sono fatto giudeo con i giudei, per guadagnare i giudei (…) sono diventato come uno che è sotto la legge (…) come uno che è senza legge (…). Mi sono fatto debole con i deboli, per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto a tutti, per salvare ad ogni costo qualcuno. Tutto io faccio per il Vangelo, per diventarne partecipe con loro»
(1 Cor 9,19.22-23). Questa è la libertà del credente perché è prima la libertà di Dio.