Dopo la strage di 148 studenti del 2 aprile 2015, c’è chi è tornato nei pressi di Garissa per lasciare un segno: come la piccola chiesa costruita nella missione di Bura Tana in ricordo dei martiri
Pubblichiamo alcuni stralci del libro “Dove i cristiani muoiono” (Ed. San Paolo) di don Luigi Ginami, sacerdote originario di Bergamo e presidente della Fondazione Santina onlus. Che ha realizzato anche un gesto concreto di vicinanza e solidarietà con la missione di Bura Tana, nei pressi di Garissa, in Kenya. Qui, nel 2015, vennero massacrati 148 studenti universitari, in gran parte cristiani, dai fondamentalisti islamici del gruppo terroristico somalo “Al Shabaab”.
Ora, poco distante dal luogo della strage, sorge una piccola chiesa a ricordo di quei martiri: un segno di perdono e misericordia, contro ogni forma di odio e di intolleranza.
L’università ha un aspetto diverso. Il sangue è stato lavato, i fori dei proiettili sono stati otturati e le pareti stuccate sono state ridipinte. All’edificio chiamato Elgon B è stato cambiato nome.
Tutto questo non basta a togliere l’atmosfera di morte che ancora vi regna. Il memoriale con i nomi dei 148 ragazzi campeggia all’inizio del campus. Questa volta ci concedono di celebrare la Messa e si tratta di un grande gesto perché l’università è islamica. Ci accompagnano all’aula scolastica riservata alla preghiera del mattino per i cristiani, dove nel resto del giorno si fa lezione. Guardo il volto dei miei compagni. Li vedo molto assorti e concentrati, quasi a non voler rovinare il solenne momento: visitare un luogo sacro di martirio.
Varchiamo la porta dell’aula e succede una cosa incredibile. Varcando l’uscio non entro solo in uno spazio diverso, ma anche in un tempo diverso. Le macchie di sangue sono state pulite, ma alla lavagna bianca, scritti in pennarello verde ci sono calcoli matematici, ci sono disegni e ci sono appunti dei professori che non sono stati cancellati. Impressiona vedere le scritte che erano presenti al momento in cui il demonio infieriva crudelmente su di loro, sui poveri ventidue ragazzi con il cranio spappolato da colpi di fucile, con pallottole così grandi da ridurre la testa in poltiglia.
Contro l’integralismo islamico che sfrutta il nome di Dio per uccidere in modo orribile giovani innocenti, le nostre mani unite in segno di comunione vogliono dire che il perdono e la misericordia sono più grandi dell’odio feroce. Oggi torna a scorrere il sangue in quest’aula, ma è il sangue presente in un calice e, in virtù dell’eucaristia che celebro, ci rende presenti il sangue di Gesù e il suo sacrificio.
La fede cristiana deve ripartire da Garissa come in passato ripartì da Roma. Garissa, come altri luoghi in cui si massacrano oggi i cristiani, è un faro di luce per tutti noi, la terribile debolezza di 148 ragazzi proclama la granitica fede in Dio e nella sua Parola e proclama il fatto che i cristiani reagiscono al martirio ponendo l’altra guancia… e proclamando: «Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno».
A Roma, sul luogo del martirio di Pietro, è sorta la basilica vaticana; così a Garissa, se non fossero morti 148 cristiani, non sarebbe stata edificata la nostra chiesetta nella missione di Bura Tana. Ecco il valore fortemente simbolico dell’opera voluta dalla Fondazione Santina, la onlus che ho l’onore di dirigere: ricordare che «il sangue dei martiri è seme di nuovi cristiani», secondo l’antico detto di Tertulliano.
Proprio questa bellissima frase, che in luoghi come Garissa si comprende profondamente, è dipinta nell’interno della cappella che siamo venuti a inaugurare. Padre Ernesto ha scelto queste parole per commemorare la data del 2 aprile 2015, accompagnate dalla palma del martirio e dalla croce.
La chiesa è stata realizzata in pochissimi mesi ed è stata inaugurata esattamente il 2 maggio 2016, a tredici mesi dal terribile massacro. Ed eccola, con i suoi diversi elementi: il verde pistacchio delle pareti e il marrone delle finestrelle basse, che si sposa con il mattone della Porta Santa di San Pietro portata da Roma; l’azzurro del portone centrale, le finte colonne dipinte di nero, le finestrelle superiori a forma di croce e la modesta croce di legno in cima al tetto. Il tutto nei meravigliosi colori della natura africana: il blu cobalto del cielo, il rosso dell’argilla e il verde degli alberi.
La nostra contemplazione dura solo un istante, perché una piccola folla di cristiani, poco più di un centinaio di persone, ci corre incontro: donne vestite a festa, bambini dagli abiti colorati, uomini in giacca. Tutti gridano con urla di festa e di accoglienza.
Inizia la Messa, in stile africano, con danze e canti. Mentre la calda sera ci riempie di colori e scende la notte, la nostra preghiera sale umile. Più si fa buio e più le candele hanno risalto.
Ormai è notte. La piccola comunità cattolica si scioglie. La chiesa viene chiusa a chiave e facciamo ritorno alla missione, dove siamo al sicuro all’interno della recinzione sorvegliata dalle forze dell’esercito. Negli occhi di tutti, la gioia di aver preso parte a un grande momento spirituale, in una terra in cui Al Shabaab continua a uccidere i cristiani. MM
Il libro
Un viaggio nei luoghi più martoriati della terra, dal Messico al Vietnam, dall’Africa al Medio Oriente. Per raccogliere le testimonianze dirette e uniche di persone che spesso non hanno voce: uomini e donne alla deriva in immensi campi profughi, famiglie spezzate dalla violenza della guerra, prigionieri abbandonati a se stessi… Tutto questo è raccolto nel libro “Dove i cristiani muoiono” (Ed. San Paolo), storie di chi dona la vita per la propria fede.