Toni e Nadine sono due giovani cristiani cresciuti nella città siriana martoriata dalla guerra. Negli anni più bui, hanno scelto di restare. E oggi raccontano come provano a guardare avanti, nonostante tutto
Antoine, Toni per gli amici, si è laureato due anni fa in Ingegneria civile ed è volontario nella sua parrocchia; Nadine studia Traduzione francese, è capo scout e catechista. Due giovani cristiani normali, attivi e impegnati come tanti altri. Se non fosse per un particolare: Antoine Badrouk e Nadine Khoudary sono nati e cresciuti ad Aleppo ed erano poco più che ragazzi – oggi lei ha 27 anni, lui 25 – quando la guerra siriana investì e sconvolse la loro vita. Il mondo sereno che avevano sempre conosciuto – «vivevamo tranquilli e in pace, ci sentivamo al sicuro», raccontano – fu mandato in frantumi all’improvviso. «Guardando le notizie al telegiornale eravamo confusi, increduli». All’inizio il conflitto armato risparmiò la loro città, capoluogo industriale e commerciale della Siria, centro abituato alla laicità e alla convivenza. Ma era solo questione di tempo perché l’orrore inghiottisse anche le sue strade, la celebre cittadella, le magnifiche moschee, le chiese come quella latina di San Francesco, nel quartiere di Al Azizieh, frequentata da Toni e Nadine fin da quando erano bambini. «Nell’estate del 2012 arrivarono le prime voci dell’occupazione di alcuni quartieri da parte di vari gruppi armati», ricordano i due giovani. «Un giorno, un vicino raccontò che in città qualcuno aveva sparato da un’auto uccidendo una persona. La violenza si stava avvicinando. Poi, in meno di una settimana, Aleppo fu divisa in due e noi fummo trascinati nella guerra».
La battaglia, che vedeva fronteggiarsi l’esercito di Bashar Al Assad e una variegata galassia di formazioni ribelli, asserragliatesi nei quartieri orientali, avrebbe infuriato per quattro lunghi anni e sarebbe costata almeno 31 mila morti (oltre a una massa di persone segnate da disabilità psicologiche e fisiche permanenti), la distruzione quasi totale degli edifici, l’azzeramento del tessuto economico e produttivo, del sistema sanitario e scolastico. Per non parlare del colpo letale inferto alle relazioni sociali. «Oggi non c’è più fiducia, prevale la paura. Quando incontri qualcuno ti sorprendi subito a chiederti: “Chi sarà? Da che parte starà?”»…ntoine, Toni per gli amici, si è laureato due anni fa in Ingegneria civile ed è volontario nella sua parrocchia; Nadine studia Traduzione francese, è capo scout e catechista. Due giovani cristiani normali, attivi e impegnati come tanti altri. Se non fosse per un particolare: Antoine Badrouk e Nadine Khoudary sono nati e cresciuti ad Aleppo ed erano poco più che ragazzi – oggi lei ha 27 anni, lui 25 – quando la guerra siriana investì e sconvolse la loro vita. Il mondo sereno che avevano sempre conosciuto – «vivevamo tranquilli e in pace, ci sentivamo al sicuro», raccontano – fu mandato in frantumi all’improvviso. «Guardando le notizie al telegiornale eravamo confusi, increduli». All’inizio il conflitto armato risparmiò la loro città, capoluogo industriale e commerciale della Siria, centro abituato alla laicità e alla convivenza. Ma era solo questione di tempo perché l’orrore inghiottisse anche le sue strade, la celebre cittadella, le magnifiche moschee, le chiese come quella latina di San Francesco, nel quartiere di Al Azizieh, frequentata da Toni e Nadine fin da quando erano bambini. «Nell’estate del 2012 arrivarono le prime voci dell’occupazione di alcuni quartieri da parte di vari gruppi armati», ricordano i due giovani. «Un giorno, un vicino raccontò che in città qualcuno aveva sparato da un’auto uccidendo una persona. La violenza si stava avvicinando. Poi, in meno di una settimana, Aleppo fu divisa in due e noi fummo trascinati nella guerra».
Questo clima di sospetto, con il rischio di ritorsioni e vendette incrociate, è una delle ragioni per cui, sebbene i missili non cadano (quasi) più, delle centinaia di migliaia di sfollati, in tanti non abbiano avuto il coraggio di tornare.
Toni e Nadine, invece, appartengono al gruppo di chi, in questi anni, non se ne è mai andato, spesso per l’assenza di alternative. «Nel nostro caso si è trattato di una scelta», tengono a precisare. Una scelta maturata, in entrambi i casi, in momenti drammatici, e che molto ha a che fare con la loro fede cristiana.
«Un giorno, mentre ero a Messa, un missile colpì la cupola della chiesa di San Francesco», racconta Nadine. «Ero scioccata. Realizzai che tutto può essere distrutto in un minuto… E sentii come se Dio mi dicesse che dovevo stare lì, per aiutare i bambini, mantenere la comunità cristiana. “Ripara la mia chiesa”, aveva raccomandato il Signore a san Francesco. Capii che, in quel momento, quello era il senso della mia vita». Altrettanto drammatica la testimonianza di Antoine. «Era un giorno come tanti, nel 2015. Io ero in casa con mia madre e mia sorella. Ricordo che ero in cucina a preparare la tavola. All’improvviso, non sentii più niente e vidi tutto grigio. Ci misi qualche secondo a realizzare che un missile era caduto sulla casa: aveva centrato in pieno la nostra camera da letto, a tre metri da me… È un miracolo che siamo ancora tutti vivi. Fu un’esperienza terrificante, ma sentii anche che Dio è sempre con noi e non dobbiamo avere paura. Allora ho detto al Signore: “Qualunque cosa vuoi, per me va bene”. Posso dire che siamo sopravvissuti grazie alla fede».
E così, come tantissimi altri aleppini, i due ragazzi hanno affrontato ogni giorno, per anni, l’incubo e le durezze della guerra. L’assenza di elettricità, il gelo d’inverno, la carenza di cibo e acqua. «Per un anno intero i rubinetti sono rimasti asciutti. Allora andavamo a cercare i pozzi nelle chiese, nelle moschee, nei parchi. Tutti, dai bambini agli anziani, si usciva con in mano le taniche da riempire e portare sul tetto delle case per avere scorte d’acqua». Che poi veniva centellinata: «Questa quantità – racconta Nadine indicando una bottiglietta mezza vuota – doveva bastare per lavarsi i denti e poi si riutilizzava nel water. Per fare la doccia usavamo una bottiglia da un litro».
Eppure, la vita è continuata. Senza elettricità – «che anche oggi è disponibile solo due o tre ore al giorno» – si studiava alla luce delle candele. Si andava in chiesa, si frequentava il catechismo e si organizzava l’oratorio per centinaia di bambini. «Due anni fa hanno partecipato addirittura in ottocento, perché eravamo l’unica parrocchia attiva in città».
La tragedia quotidiana ha costituito anche un banco di prova per le relazioni tra le diverse comunità religiose. La sanguinosa divisione in fazioni ha seminato odio anche laddove la convivenza, prima del conflitto, era naturale e quotidiana. «Avere compagni di università o colleghi di lavoro musulmani per noi è sempre stato normale, anche se i matrimoni misti erano rari», spiegano i due giovani. «Durante la guerra, nel nostro quartiere, che era tradizionalmente cristiano, si sono trasferite molte famiglie musulmane. E nonostante il clima di tensione generale, la parrocchia ha rappresentato una vera “Arca di Noè” in cui tutti, a prescindere dalla fede, potevano rifugiarsi per qualunque necessità: cure mediche e aiuti materiali, accoglienza, problemi familiari». D’altra parte – nota Nadine – «Gesù ci insegna ad aiutare tutti gli uomini. Credo che in questi anni bui abbiamo offerto un’immagine autentica della nostra fede, e penso che le persone non siano rimaste indifferenti a questa testimonianza».
È lo stesso approccio che, una volta cessati i feroci combattimenti per la conquista della città (alla fine del 2016 le forze governative riuscirono ad espugnare Aleppo est, riprendendo il controllo del territorio urbano), la Chiesa aleppina sta seguendo ora, nel tentativo di ricostruire un tessuto sociale lacerato. «Il dialogo – spiega Toni – non parte dalla teoria ma dalla vita quotidiana, a cominciare, ancora una volta, dalle esigenze materiali. La comunità ha adottato 600 bambini musulmani, di cui oltre 200 con bisogni speciali conseguenti alla guerra: ogni mese garantiamo latte, assistenza medica, pannolini…».
In accordo con il gran muftì Ahmad Badreddin, il vicario apostolico monsignor Georges Abou Khazen ha avviato un progetto per le piccole vittime di un dramma nel dramma della guerra: i bambini nati da donne violentate durante le occupazioni e gli assedi. Figli della vergogna – ad Aleppo sono circa duemila -, bimbi “fantasma” perché non vengono registrati all’anagrafe e restano tagliati fuori da qualunque forma di assistenza pubblica.
Mentre si cerca di curare gli effetti di anni di discesa agli inferi, con una generazione traumatizzata e a cui è stato negato il diritto all’istruzione, è necessario guardare avanti, e provare a immaginarsi un avvenire. Come si fa?
«Il primo sforzo è il tentativo di distaccarci dalle logiche di guerra, dal meccanismo che divide tutti in fazioni, secondo l’idea che “se sei dalla mia parte devi essere contro questo e quell’altro gruppo”», rispondono i due giovani. «E poi ci sono le infinite difficoltà materiali, che rendono quasi impossibile proiettarsi nel futuro: l’economia è distrutta, non c’è lavoro e dal punto di vista degli assetti politici potrebbe capitare di tutto». Toni, con la laurea in Inge-gneria in tasca, oggi è impiegato in parrocchia; Nadine, che progettava di fare l’architetta, ha dovuto interrompere gli studi in quel settore per scegliere una facoltà più accessibile. «Cosa sogno? Di viaggiare, di farmi una famiglia, andare in palestra… cose normali!».
Ma di normale, ad Aleppo, non è rimasto quasi niente. La popolazione è diminuita del 60%, quella cristiana addirittura dell’80%: i cristiani aleppini erano 180 mila prima della guerra, oggi sono appena 32 mila. «Ma non perdiamo la speranza», assicurano questi due ragazzi che hanno mantenuto una luce vivida negli occhi, anche dopo avere visto tanto orrore. «Viviamo giorno per giorno, e per il futuro ci affidiamo a Dio».