Dall’oratorio alla missione, passando attraverso grandi scelte e ottime motivazioni. Il racconto di Alessandro Canali e Alessandro Maraschi, i due seminaristi italiani del Pime che sabato 8 giugno verranno ordinati sacerdoti in duomo a Milano
Quando, alla Tuttinsieme del 2012, annunciarono ai giovani radunati al Santuario della Madonna del Bosco che sarebbero entrati entrambi in seminario, il sottoscritto era presente. Un coro di sospiri si è immediatamente levato dal pubblico femminile; il commento più sussurrato era: «Che spreco!» in tutte le sue varianti, la più azzeccata delle quali resta: «Il Signore si prende sempre i migliori». Il fatto è che – e penso di poterlo dire senza destare scandalo dato che è ben risaputo – i soggetti in questione sono due giovanotti di bella presenza, entrambi di 28 anni, entrambi di nome Alessandro, entrambi novelli padri del Pime, che saranno ordinati sacerdoti l’8 giugno nel Duomo di Milano dall’arcivescovo Mario Delpini insieme ai nuove preti dall”arcidiocesi (mentre nelle prossime settimane anche altri quattro nuovi missionari del Pime – tre indiani e un birmano – riceveranno l’ordinazione nelle loro comunità).
Le ragazze avrebbero dovuto capire che la strada del matrimonio non faceva per loro due. Almeno per quanto riguarda Alessandro Canali, predisposto al sacerdozio anche solo per il fatto di essere nato e cresciuto a Valmadrera, paese in provincia di Lecco che ha dato i natali a molti e molto noti missionari del Pime. «La mia formazione di giovane all’interno della Chiesa è stata proprio un classico. Oratorio, educatore e poi altre esperienze, tra cui Giovani e Missione, che mi hanno fatto fare alcuni incontri significativi. Sono stati proprio questi a farmi scegliere di andare più in profondità per capire quale fosse il modo più bello di spendere la mia vita».
Per Alessandro Maraschi, invece, l’ingresso in seminario non era così scontato. Originario di Rogoredo, periferia di Milano, lui in parrocchia non ci voleva andare. «È stato il mio parroco a ripescarmi e a insistere finché l’oratorio non è diventato la mia seconda casa. Il mio stile è sempre stato quello di collezionare belle esperienze e fare l’educatore rientrava nella categoria. Insieme al corso di teatro, all’atletica, alla fidanzata…». E poi? «Semplicemente, mi sono accorto che avevo tanti mattoncini, ma non avevo costruito nulla. Una specie di minestra di ingredienti buoni, ma messi insieme senza seguire una ricetta. Nulla era orientato verso qualcosa che avesse un nome, una vocazione. A metà dell’università mi sono reso conto che senza questo uno non può essere felice, così ho iniziato il cammino di discernimento del Pime e sono arrivato di fronte a una scelta inderogabile e profonda».
Come funziona questa famosa “vocazione”? «Il problema è tutto nello spazio che diamo agli altri, uno spazio che per noi è pericoloso perché li dentro l’altro può anche farci del male. Solo che non possiamo non lasciarglielo, o ci chiudiamo in noi stessi condannandoci alla solitudine e all’infelicità. Arrivare, come è successo a me, al momento di dover dare questo spazio è una grazia. Mi sono trovato di fronte a questa sproporzione, in cui mi era chiesto di fidarmi e di aprirmi totalmente; la scelta per me era tra l’amare una donna nel matrimonio o il Signore nel sacerdozio. Puoi fare tante esperienze bellissime e avere tutto quello che vuoi, ma alla fine le domande sono sempre quelle: chi ami? Da chi ti senti amato? Arrivato a quel punto avevo chiaro che non si può essere amatoriali nell’amare, è una cosa che si può fare solo bene. Così ho deciso di fidarmi della relazione col Signore, che per me era diventata la più importante».
Ma a questo punto sorge una domanda: perché proprio missionari? Lo spiega Alessandro Canali: «Durante il mio percorso di discernimento mi sono accorto che l’incontro con i missionari del Pime era diventato sempre più centrale, perciò da subito mi sono orientato verso il sacerdozio con il carisma del Pime nel cuore. Poi, durante il seminario, l’elemento della missionarietà è diventato sempre più importante. Mi ha colpito una frase del beato Vismara: “Fiorisci dove sei piantato”. Ho capito che la famiglia e gli amici sono un dono che mi è stato fatto perché io possa essere sradicato, ripiantato da un’altra parte e fiorire anche lì. E poi i racconti dei missionari, che fanno dell’incontro con il diverso il cardine della loro vita, mi hanno sempre ispirato».
È il fascino dell’esotico che non lascia mai indifferenti. Proprio per questo chiedo a Canali un’ulteriore spiegazione. Non si può essere “trapiantati” anche senza essere missionari, incontrando l’altro e facendo del bene senza essere sacerdoti, semplicemente viaggiando? «Sì, ma questo esotismo è più un hobby. Il passaggio di qualità da passatempo a missione lo fa fare Gesù e nient’altro. Non potremmo costruire la nostra vita su un hobby, nessuno lo farebbe. Quello che ci spinge, invece, è l’esperienza di sentirci amati e inviati, un’esperienza fatta nelle relazioni con gli altri e nella preghiera. E quando approfondisci capisci che in questa relazione con Gesù puoi davvero investire, che in lui la tua vita ha davvero senso».
Dei due “Alessandri”, solo uno verrà inviato subito in missione. Alessandro Canali rimarrà in Italia, inserito nella comunità del Pime di Milano, per lavorare nell’animazione missionaria con i giovani. «I prossimi anni saranno utilissimi per prendere le misure della mia nuova vita da sacerdote. Già in seminario ho capito che le relazioni sono la cosa più importante: ti mettono in gioco, ti aiutano a scoprire te stesso. Vivrò in relazione con tanti giovani e questa sarà un’occasione per crescere ancora. Ma l’opportunità più grande sarà quella di cominciare, sin da subito, ad essere ponte tra la Chiesa locale di Milano e le missioni». Alessandro Maraschi invece è atteso in Messico. Non sa ancora di preciso dove, ma gli hanno detto di iniziare a studiare il mixteco. «Per me la missione è ancora tutta desiderio e aspettativa», dice. «Sono contento di andare in un posto dove le persone sono accoglienti e dove c’è bisogno del Vangelo per combattere tanta violenza. Quello che mi auguro è di poterci stare a lungo, perché lì il Pime è piccolo e fragile. E spero di essere uno dei famosi “pochi ma buoni”».
A entrambi gli “Alessandri” ho chiesto cosa ne pensassero del fatto che dopo di loro in seminario restano solo due italiani. «Questa è un’ansia che non ci appartiene», hanno risposto. «L’importante è che il Pime continui la sua opera con serietà e umanità. Certo che speriamo che entrino altri italiani, ma solo perché potremmo meglio condividere con loro la grandezza di questa esperienza. Per il resto, le vocazioni sono nelle mani dello Spirito: ci fidiamo di lui, che chiama da dove non ci si aspetta».