Primo missionario del Pime di origine akha, padre Nathi Lobi sta studiando il tagalog nelle Filippine dopo aver contribuito alla traduzione dei testi sacri nella sua lingua. Un impegno perché l’annuncio raggiunga nel profondo il cuore della gente
«Non volevo venire in Italia perché per me la lingua era troppo difficile!». Ad affermarlo è padre Nathi Lobi, missionario del Pime originario del Nord della Thailandia e attualmente nelle Filippine. Che – per la cronaca – l’italiano lo parla benissimo. Così come, ovviamente, conosce la sua lingua materna, l’akha, ma anche quella più diffusa nel suo Paese, il thai, e persino un po’ di cinese perché viene da zone di frontiera, oltre all’inevitabile inglese internazionale: in questo momento, infine, sta studiando il tagalog nelle Filippine.
Padre Nathi è, a tutti gli effetti, un vero missionario poliglotta: un missionario dal mondo per il mondo. Ma con un’origine ben precisa, di cui va fiero: è il primo sacerdote akha nella storia del Pime. E probabilmente uno dei primi appartenenti a questa minoranza che vive sulle montagne del Nord della Thailandia, dove l’Istituto arrivò esattamente cinquant’anni fa.
«Sono nato e cresciuto in una famiglia cattolica in un piccolo villaggio sulle montagne – racconta padre Nathi -. I primi missionari che ho conosciuto sono stati i betharramiti. Il mio villaggio, infatti, apparteneva alla loro parrocchia che però distava 150 chilometri. Era raro partecipare alla Messa. La nostra fede si nutriva di preghiera e di cose semplici».
È solo a 14 anni che Nathi conosce il Pime. O, meglio, conosce due missionari che hanno fatto la storia dell’Istituto in quel Paese: padre Corrado Ciceri e padre Maurizio Arioldi. «Ho chiesto loro se potevano accogliermi nell’ostello della missione per potere frequentare le scuole medie. Mi hanno accettato».
Gli ostelli sono una caratteristica peculiare dell’impegno del Pime in Thailandia. Sono presenti in tutte le missioni e hanno permesso a centinaia di giovani delle cosiddette “tribù dei monti” di poter frequentare le scuole, che spesso sono molto distanti dai loro villaggi. Gli ostelli, tuttavia, rappresentano anche luoghi di crescita umana e cristiana per eccellenza.
«È qui – conferma padre Nathi – che per la prima volta ho potuto avere una vera formazione cristiana. Sino a quel momento, infatti, non avevo mai avuto la possibilità di partecipare al catechismo come lo si intende in Italia. Vivendo all’ostello ho avuto l’opportunità di conoscere in modo più approfondito la mia religione e di far crescere la mia fede. Mi piacevano molto quei momenti di formazione, al punto che, terminata la scuola media, io e altri amici abbiamo creato un piccolo gruppo di “annuncio” per fare catechismo nei villaggi. L’idea era di portare agli altri quello che era mancato a noi da piccoli. E così andavamo a insegnare ai bambini e ai giovani che vivevano distanti dalla chiesa. La gente era molto contenta di questa iniziativa».
A quel tempo, però, la vocazione sacerdotale era ancora molto lontana dal giovane Nathi. Gli piaceva tuttavia fare volontariato con i bambini più piccoli o lavorare nel centro sociale dei camilliani di Chang Rai. Conosce anche i focolarini e inizia a frequentarli alla ricerca di qualcosa di più profondo.
«Non avevo mai pensato di entrare in seminario. Mi sembrava che fosse una vita troppo dura!», ammette con sincerità. Vuole però approfondire la sua fede anche al di fuori del suo ambiente e del suo Paese. Chiede così ai focolarini di fare un’esperienza in Italia. «Sono stato per dieci mesi a Loppiano e lì mi sono subito scontrato contro il muro della lingua, per cui, invece di studiare, sono finito a lavorare nella mensa». Quell’esperienza, tuttavia, lo fa maturare e fa crescere in lui anche un desiderio nuovo di conoscere sempre di più Gesù e di annunciarlo ad altri. «Per la prima volta ho pensato che potevo diventare missionario. E mi è venuto immediatamente in mente il Pime. Non sapevo nulla dell’Istituto. Per me il Pime erano le persone che avevo incontrato, i padri Ciceri e Arioldi, innanzitutto, ma anche padre Claudio Corti, persone che, ai miei occhi, davano la vita per noi, per il mio popolo e per far crescere la nostra fede».
E così scrive subito a padre Arioldi che gli propone il seminario internazionale di Monza: «Non avrei voluto venire in Italia. Pensavo che non sarei mai riuscito a imparare la lingua. Ma se non c’era scelta voleva dire che quella era la scelta di Dio!».
Anche se le difficoltà non sono mancate (non solo linguistiche), padre Nathi ricorda l’esperienza del seminario come un tempo bello e ricco: innanzitutto di conoscenza e condivisione in una dimensione internazionale come quella di Monza dove sono presenti giovani di quattro continenti. «Non sempre è facile confrontarsi con la cultura dell’altro e accettare le reciproche differenze. Anche perché ti costringe a metterti in discussione e a cambiare anche te stesso. Quando sono tornato in Thailandia, mi dicevano che ero diventato un po’ italiano!».
Persino il rientro al villaggio è stata un’esperienza forte. Perché la sua scelta aveva costretto anche chi era rimasto lì a cambiare un po’: «Prima che entrassi in seminario, mi dicevano che diventare prete non era una cosa bella, perché non avrei avuto una famiglia e una discendenza. Adesso sia la mia famiglia che altre del villaggio hanno capito che questa può essere una scelta. Sono contenti per me. Alcune, anzi, hanno detto che manderanno pure loro i figli in seminario. C’è già stato un altro caso».
Questa apertura non gli ha fatto però dimenticare le sue origini e anche l’importanza di poter annunciare la Buona Novella nella lingua della gente. E così, nell’anno trascorso in Thailandia – e segnato dal Covid-19 che ha ritardato la sua partenza per la missione nelle Filippine – ha collaborato al lavoro di traduzione dei testi sacri in lingua akha portato avanti dal suo confratello padre Marco Ribolini. «È molto importante, sia per la gente che per i catechisti, poter usare la nostra lingua per trasmettere qualcosa di così importante e profondo come la fede».
Ora padre Nathi sta affrontando una nuova sfida, che ancora una volta ha a che fare con l’apprendimento di un idioma. Quando finalmente è riuscito a partire per le Filippine, ha trascorso alcuni mesi nella capitale Manila segnati dal lockdown a studiare l’inglese. E ora, finalmente con maggiore libertà, si trova nel Sud, a Mindanao dove si sta dedicando al tagalog. «Una lingua molto difficile!», dice. Ma c’è da credere che imparerà pure questa alla perfezione per continuare a testimoniare, con la parola e con la vita, il Vangelo di Gesù.