Monsignor Gherardo Gambelli è stato per 11 anni “fidei donum” in Ciad, dove ha contribuito alla nascita del vicariato di Mongo, in una regione musulmana in cui i cristiani sono l’1%. Dal 24 giugno è il nuovo arcivescovo di Firenze
Firenze e Mongo sono due mondi che più diversi non potrebbero essere. Gioiello rinascimentale la prima, cittadina polverosa nel cuore del Sahel la seconda. Eppure c’è un legame che dura da anni fra questi due luoghi lontanissimi non solo geograficamente. Ma soprattutto c’è una persona che questo legame lo ha incarnato e reso vitale: è monsignor Gherardo Gambelli, 55 anni, fidei donum fiorentino in Ciad, e dal 24 giugno arcivescovo di Firenze. Una nomina che, nello stile di Papa Francesco, porta le periferie al centro.
Anche i cristiani di Mongo ne hanno gioito e si sono sentiti partecipi di questa scelta che in qualche modo mette al centro pure loro, una piccolissima minoranza – l’1% della popolazione – in una regione quasi totalmente musulmana. È qui che don Gherardo ha vissuto per 11 anni, prima nella capitale N’Djamena e poi nell’immenso vicariato di Mongo, ai confini del nulla.
«Mi hanno travolto di messaggi! – dice oggi -. Li porto nel cuore e porto con me la loro capacità di vivere in profondità il Vangelo, ma anche di affrontare le prove della vita con speranza, di sapersi sempre rialzare davanti alle croci. Le persone povere con la loro fede ti evangelizzano. Il dono più grande che ho ricevuto è proprio questa fede rocciosa. Ma anche l’attenzione della Chiesa, in un contesto quasi esclusivamente musulmano, per la dimensione sociale della sua presenza, che va sempre insieme a quella dell’evangelizzazione».
Don Gherardo parla dalla parrocchia della Madonna della Tosse di cui è stato parroco da quando è rientrato in Italia a fine marzo 2023, portando avanti al contempo l’impegno di cappellano dell’istituto penitenziario di Sollicciano e di padre spirituale del seminario. Ma il suo pensiero torna volentieri a quel mondo saheliano dove lo abbiamo incontrato l’anno scorso, profondamente calato in una “Chiesa di frontiera” da tutti i punti di vista, e non solo per la posizione geografica. Il vicariato di Mongo, infatti, è grande una volta e mezzo l’Italia e si estende su un territorio semidesertico sino alla frontiera del Sudan (cfr. pp. 10-12) – oggi attraversata da centinaia di migliaia di profughi in fuga dalla guerra – e a quella della Repubblica Centrafricana, dove le temperature possono arrivare a 50 gradi e le carestie sono sempre in agguato. Immerso in un mondo quasi esclusivamente musulmano, il vicariato può contare su due preti locali (tra cui il vescovo) più una dozzina di missionari e altrettante suore. «Ho vissuto l’esperienza di una Chiesa assolutamente minoritaria, ma non ripiegata su se stessa, anzi: una Chiesa in uscita, non rinchiusa nel recinto della liturgia o al servizio esclusivo dei pochissimi cristiani presenti, ma aperta all’incontro, al dialogo e alla dimensione educativa e sociale; una Chiesa in ascolto dei bisogni della società che ha saputo camminare insieme alle altre religioni e con le istituzioni», ci faceva notare don Gherardo, mentre ci mostrava le strutture a dir poco essenziali della cattedrale di cui è stato parroco, svolgendo al contempo il ruolo di vicario generale. Oggi entrambi gli incarichi sono stati assunti da un missionario del Pime, padre Sleeva Palli, che ha raggiunto un altro missionario dell’Istituto, fratel Fabio Mussi, arrivato per primo a Mongo nel settembre del 2021. Entrambi, anche se in modo diverso, si sono fatti carico dell’eredità di don Gherardo che durante la sua permanenza in Ciad si è sempre dedicato anche alla formazione dei seminaristi e alla promozione dell’educazione in varie forme.
Grazie alla collaborazione con la diocesi di Firenze, infatti, è stato realizzato un liceo con annesso collegio, frequentato da quasi 400 studenti e destinato a crescere. «Lo abbiamo intitolato a monsignor Romero – dice don Gherardo -, di cui peraltro è conservata una reliquia nella cattedrale di Mongo. Il tabernacolo, invece, viene dall’abbazia di Tamié, da cui erano partiti alcuni monaci di Thibirine che vennero uccisi in Algeria nel 1994».
Questi riferimenti rinviano a una presenza cristiana che assomiglia molto a quella dell’Africa del Nord, i cui vescovi, nella tappa continentale del Sinodo sulla Sinodalità, avevano fatto notare come «le frontiere nel deserto siano porose ed è impossibile dire chi sta dentro e chi sta fuori», ricorda don Gherardo. È un po’ il “carisma” che oggi porta a Firenze, dove peraltro si è subito rimesso in gioco in un contesto come il carcere dove, al contrario, il dentro e il fuori sono marcati da confini netti e invalicabili. «Essere presente in questi luoghi periferici in tutti i sensi mi fa sentire sempre un po’ in missione. Del resto, avevo visitato le carceri anche in Ciad, e qui a Firenze l’imam è un caro amico con cui abbiamo collaborato e fatto molte cose insieme».
Anche in Ciad, inevitabilmente, il dialogo interreligioso – dialogo della vita innanzitutto – è stato una costante della sua missione: «La scuola, in particolare, è stata un’esperienza molto bella di condivisione non solo con gli studenti, ma anche con i genitori: è stato un fermentarci a vicenda. Ognuno, cercando di vivere bene la propria religione, aiuta l’altro a vivere bene la sua. Senza proselitismo, senza pensare che l’altro sia su un cammino sbagliato. Il Documento sulla fratellanza umana di Abu Dhabi ha rappresentato spesso una pista per percorsi di educazione alla convivenza e al dialogo». Percorsi semplici, fatti con gente semplice, ma veri, autentici. Magari a partire da qualcosa che qui si dà per scontato, come i libri. Grazie alla Caritas sono state realizzate diverse biblioteche nelle parrocchie del vicariato, dove normalmente è presente anche una scuola cattolica. Una è stata significativamente intitolata a Giorgio La Pira. «C’è anche una biblioteca mobile che si sposta da un villaggio all’altro. I libri sono semi importanti per far crescere piante rigogliose», ci diceva lo scorso anno, mentre ci mostrava la piccola biblioteca della cattedrale. Lì accanto, nel cortile, un gruppo di giovani discuteva di temi legati alla loro educazione e al loro futuro.
«Ho visto bambini che sono diventati ragazzi e poi giovani, che si sono assunti la loro responsabilità anche rispetto alla Chiesa. Ho toccato con mano la loro capacità di farsi carico di loro stessi anche in contesti difficili, come quello del Ciad, molto vulnerabile dal punto di vista climatico, dove la mancanza di acqua e di cibo spesso attanaglia le famiglie. A volte ho assistito a veri e propri miracoli! Quando c’è davvero un progetto in cui le persone si sentono coinvolte si realizzano cose che sembrano impossibili».
Questo riconduce immediatamente anche al tema della sinodalità che in un contesto in cui sacerdoti, religiosi e religiose sono una rarità coinvolge naturalmente laici e giovani: «Sono abituati a organizzarsi, a sostenersi, a portare avanti le attività. Le comunità cristiane nel vicariato di Mongo sono piene di giovani e di tanti movimenti. E spesso, nonostante la mancanza di risorse, sentono il desiderio di aiutare anche le comunità più isolate».
Una Chiesa “povera” che può insegnare qualcosa anche alle nostre Chiese “ricche”, ma spesso vecchie e affaticate. «Dall’esperienza di missione porto con me l’entusiasmo e la freschezza del Vangelo di queste giovani comunità cristiane, ma anche l’idea di Chiesa-famiglia di Dio che in Africa è già molto radicata». «Anche qui a Firenze – aggiunge – nonostante i problemi vedo molta creatività e voglia di fare».
Il motto che ha scelto è: “Tutto concorre al bene” (Rom 8, 28). «È una frase che mi ricorda santa Giuseppina Bakhita» dice don Gherardo. La storia di questa schiava sudanese, liberata dai suoi padroni in Italia, divenuta religiosa canossiana e proclamata santa nel Duemila, ha pure un risvolto ciadiano. Originaria del Darfur, Bakhita – che significa “Fortunata” – apparteneva a un’etnia che stava a cavallo della frontiera con il Ciad: alcune famiglie riuscirono a sfuggire all’islamizzazione forzata e nascondersi sulle montagne vicino a Mongo, divenendo successivamente il primo nucleo di cristiani di quella regione, da cui discende anche il vescovo, monsignor Philippe Abbo. «Venduta per cinque volte come schiava – ricorda don Gherardo – ha saputo leggere, come Giuseppe figlio di Giacobbe, tutto in un’ottica di provvidenza. Dio sa usare anche il male per fare il bene. È una frase che mi ispira molto e che parla molto di me. Il Signore si serve sempre della difficoltà per realizzare cose belle».
È certamente un auspicio anche per la sua nuova “missione” come arcivescovo di Firenze. Il Ciad però resta nel suo cuore e spera di tornarci un giorno. Intanto, alla sua ordinazione saranno presenti il vescovo di Pala, Dominique Tinoudji, a cui è legato da un’amicizia ventennale, e il vescovo della nuova diocesi di Kumra, Samuel Mbairabe Tibingar: entrambi hanno studiato a Firenze. Insomma il legame tra l’arcidiocesi toscana e la Chiesa del Ciad è destinato a continuare.