Da capitale della violenza a Paese più sicuro del continente: ma dietro al “miracolo” del presidente Bukele, rieletto a febbraio, c’è il mancato rispetto dei diritti umani. Il racconto di padre Roberto Maestrelli, missionario a fianco dei migranti
Da capitale degli omicidi a Paese più sicuro dell’America Latina: è la parabola di El Salvador sotto la guida del giovane presidente Nayib Bukele, rieletto lo scorso febbraio con l’84% delle preferenze. Gran parte del consenso popolare del leader, che in una recente statistica dell’istituto cileno Cadem è risultato il più amato del continente (davanti all’uruguaiano Luis Lacalle Pou e all’argentino Javier Milei), deriva proprio dalla sua lotta contro le maras o pandillas, le bande criminali che per anni hanno tenuto in scacco il Paese con estorsioni, minacce, attentati, spaccio di droga e omicidi.
Lo sanno bene i missionari scalabriniani, che nel loro lavoro nello Stato più piccolo dell’America Centrale hanno spesso intercettato questa ondata di violenza: «Alla Casa del Migrante di San Salvador abbiamo nascosto e accolto persone che hanno dovuto lasciare le proprie abitazioni perché minacciate dai pandilleros», racconta padre Roberto Maestrelli, che dirige la struttura di accoglienza fondata dal confratello padre Mauro Verzeletti nel 2018 per assistere in particolare chi cerca di raggiungere gli Stati Uniti.
I successi di Bukele sul fronte dell’ordine pubblico, tuttavia, hanno un prezzo altissimo che il Paese sta pagando sul fronte dei diritti umani. Fin dalla sua prima elezione, nel 2019, il presidente ha usato il pugno di ferro contro le bande e da marzo 2022 è in vigore uno “stato di eccezione” (formalmente temporaneo ma prorogato già 25 volte), che sospende certe garanzie costituzionali dei cittadini: in due anni, oltre 75 mila persone sono state rinchiuse in carcere, il 2% della popolazione adulta in una nazione di poco più di sei milioni di abitanti.
Amnesty International parla di «violazioni istituzionalizzate dei diritti», puntando l’indice sulle modifiche al codice penale che hanno indebolito la presunzione d’innocenza e il diritto alla difesa e citando 327 casi di sparizione forzata, migliaia di detenzioni arbitrarie, un sovraffollamento delle carceri del 148% e almeno 235 morti in custodia. L’anno scorso è stato inaugurato il Centro di Confinamento per il Terrorismo (Cecot): situato a Tecoluca, è la più grande prigione del continente. Un reportage fotografico di El País mostra i prigionieri, tutti con la testa rasata, rinchiusi in celle in cui non è mai buio, i detenuti sono sorvegliati costantemente e qualsiasi contatto con l’esterno è proibito.
Padre Maestrelli, originario di Empoli, si è inserito in questo contesto complesso l’anno scorso, dopo una lunga esperienza missionaria in America Latina: il sacerdote 76enne ha già gestito altre due Case del Migrante: una a Manta, in Ecuador, e l’altra a Cúcuta, il capoluogo del dipartimento colombiano di Norte de Santander, al confine con il Venezuela. In queste strutture gli scalabriniani forniscono assistenza materiale e sostegno spirituale a migranti, sfollati, persone deportate o in transito, rifugiati: «Accogliamo 600/700 persone l’anno – racconta il missionario -. Ho venti collaboratori che operano con me, incluse una psicologa e un’assistente sociale. Forniamo vitto, alloggio, cure mediche e assistenza legale. Ogni giorno, poi, passiamo del tempo con i nostri ospiti facendoli sentire a casa loro: organizziamo tante attività ricreative, festeggiamo i compleanni e cerchiamo di tenere alto il morale».
La Casa del Migrante riceve anche chi richiede asilo in Salvador o in altri Stati. «I programmi dell’Unhcr, l’agenzia Onu per i rifugiati, sono abbastanza stringenti: una volta sbrigate tutte le pratiche e ottenuta la cittadinanza salvadoregna i nostri ospiti dovrebbero lasciare la casa, ma non hanno un posto dove vivere e un lavoro – spiega padre Roberto -. Per questo motivo abbiamo ideato un programma parallelo con altri finanziamenti: aiutiamo i migranti a trovare un’occupazione e diamo loro in affitto un’abitazione per alcuni mesi, finché riescono a rendersi indipendenti».
Racconta ancora il sacerdote italiano: «Come congregazione scalabriniana ci occupiamo di tutte le forme di migrazione esistenti. Anche noi missionari, del resto, viviamo un po’ come migranti e portiamo avanti l’opera di san Giovanni Battista Scalabrini, che si era commosso quando, aspettando un treno a Milano, aveva visto le famiglie dirette a Genova per imbarcarsi verso l’America». Padre Maestrelli ne ha incontrate tantissime anche nel corso del suo servizio in Ecuador e in Colombia: «A Cúcuta accoglievamo circa mille persone al giorno, tutte espulse dal Venezuela perché senza documenti. Le facevamo dormire e mangiare, perché la permanenza nelle carceri venezuelane era stata dura, dopo di che c’erano due strade: o fornivamo loro supporto nel compilare le pratiche per tornare in Venezuela, oppure le aiutavamo a rientrare nei propri Paesi d’origine». Nella sua lunga esperienza latinoamericana, il missionario ha operato anche in diversi altri ambiti: subito dopo l’ordinazione aveva fatto un’esperienza in un centro studi in Venezuela, lavorando per una rivista mensile in italiano e seguendo gli eventi del Paese, mentre poi ha avuto vari incarichi pastorali: «A Cúcuta ho gestito una parrocchia per quattordici anni: qui ho avviato chiese e scuole. L’ho fatto anche in un’altra città colombiana, Cartagena, dove il mio compito principale era assistere i marinai. Sono stato anche a Tibú, un comune della Colombia nord-occidentale al confine col Venezuela, nella zona del fiume Catatumbo. Erano gli anni in cui era in corso un conflitto tra guerriglieri e paramilitari. Anche qui ho aiutato la comunità con luoghi di culto e deputati all’istruzione».
Oggi, a San Salvador, è anche il parroco di Nuestra Señora de la Candelaria, attualmente frequentata soprattutto da persone anziane. «Il vescovo mi ha indirizzato qui per puntare a fare rinascere la parrocchia, che era a rischio di chiusura perché punto di incontro di due bande armate. C’è anche un problema logistico, perché ci troviamo in mezzo a due strade molto trafficate e non esiste un parcheggio». Il compito del missionario è dare una seconda vita a questa chiesa: «Vedremo cosa riuscirò a fare: un sacerdote da solo non fa nulla, ha bisogno del supporto di qualche laico che scelga di impegnarsi. Se avrò un gruppetto di fedeli ad aiutarmi, proveremo a organizzare un cammino per i giovani e magari anche per gli anziani».
Padre Roberto racconta di una San Salvador che in qualche modo racchiude due città: «La parte nuova assomiglia a una metropoli americana, con grattacieli, grandi palazzi, villette con giardini e parchi: qui ci sono le case vacanza dei sudamericani che risiedono negli Stati Uniti. Il centro storico ha un’altra faccia: la mia chiesa, tutta in legno, è rovinata dai tarli e dovrebbe essere risistemata». Quando gli si chiede di raccontare come vivono i salvadoregni, il missionario sintetizza: «Tanti vanno avanti grazie alle rimesse in dollari degli emigrati: la quasi totalità di questo denaro che giunge da chi vive da fuori viene utilizzata per comprare generi alimentari». Nonostante l’immagine di successo rilanciata dal presidente-sceriffo, il Paese arranca ancora.