Il Messico che ci è rimasto dentro

Il Messico che ci è rimasto dentro

«Abbiamo incontrato tanti ragazzi che avevano lasciato tutto in cerca di un futuro migliore: nonostante le incertezze, non perdevano mai il sorriso». La testimonianza di Elena Bolognini e Matilde Pozzi, che hanno fatto un’esperienza a Città del Messico grazie a “Mission Exposure”, il cammino per studenti universitari della Cattolica di Milano promosso dal Pime

Ad accoglierci a Città del Messico è stato il caloroso abbraccio delle missionarie scalabriniane: grazie alla splendida ospitalità di Nuccia, Luisa, Rosiane, Giuliana e Claudia ci siamo subito sentite a casa. Condividere con loro un mese è stata una bellissima opportunità di crescita: abbiamo imparato cosa significhi dedicarsi all’altro senza aspettarsi nulla in cambio e adattare la propria quotidianità a quella altrui.

Dopo qualche giorno abbiamo conosciuto la Casa del Migrante ad Iztapalapa. Lì facevamo attività con i bambini, parlavamo con chi avesse bisogno di condividere un pensiero o una sofferenza, insegnavamo un po’ di inglese agli adulti e smistavamo e consegnavamo gli indumenti offerti dalle famiglie messicane.

All’inizio tornavamo a casa stanche, con la testa pesante e piena di pensieri. C’erano tanti ragazzi e ragazze della nostra età che avevano lasciato tutto e tutti per partire e cercare un futuro migliore: non perdevano mai il sorriso nonostante le prospettive incerte. Ci ringraziavano per quel poco che facevamo e volevano conoscerci per quelle che eravamo. Sempre curiosi, ci chiedevano che cosa studiassimo, quali città avessimo visitato, come mai avessimo deciso di venire in Messico. I bambini appena ci vedevano ci correvano incontro abbracciandoci. Esclamavano «Hola, profeee», inseguendoci per tutta la casa finché non ci fermavamo a giocare con loro.

Una delle prime cose che il responsabile della casa, Miguel, ci ha detto è stato di non creare legami troppo stretti con le persone, specialmente i bambini, perché al momento della nostra partenza questo avrebbe potuto causare loro delle ferite. Entrambe credevamo di potercela fare eppure, ancora adesso, pensiamo a quegli incontri e a quegli sguardi, a quella splendida forza che ci auguriamo possa portare quei ragazzi ovunque nella vita. Una tenacia che derivava anche dalla fede.

«Agisci in modo da trattare l’umanità, sia nella tua persona, sia in quella di ogni altro, sempre anche come fine, mai solo come mezzo». L’imperativo categorico di Kant ben sintetizza l’idea che, dopo la missione, abbiamo voluto portarci nella nostra quotidianità. Si tratta del rispetto per la dignità umana che si trova in noi e negli altri, e dell’importanza di non screditare nessuno solo perché si trova in una condizione diversa rispetto alla nostra. L’insegnamento che abbiamo portato a casa è quello di riconoscere il bello e la meraviglia che risiede nello sguardo dell’altro, e cercare sempre di farne tesoro.