Il racconto del francescano padre Bahjat Karakach, parroco latino della città siriana afflitta da tredici anni di guerra, dal terremoto e ora anche dai contraccolpi del conflitto a Gaza. «Fatichiamo a vedere un futuro, il mondo deve intervenire»
Le voci dei ragazzi risuonano nel cortile della parrocchia di San Francesco, nel quartiere di Al-Aziziyeh, dove è in corso l’oratorio estivo. Una piccola oasi di serenità nel cuore di Aleppo, dove i piccoli, più di tutti gli altri, vivono sulla propria pelle la sofferenza di una città martoriata: una guerra che dopo tredici anni non può ancora dirsi conclusa e il terremoto devastante del febbraio 2023, che non smette di tenere svegli di notte molti di loro. «A oltre un anno dal sisma, ci sono bambini che non riescono a dormire da soli», conferma padre Bahjat Karakach, parroco francescano della chiesa latina. Che oggi vede anche lo spettro del conflitto a Gaza allungare la sua ombra su un popolo già esasperato: «In questi mesi la violenza ha varcato più volte il confine del Paese e tutti noi ci sentiamo ancora più insicuri. La gente è sfiduciata, non riesce a scorgere un futuro».
Difficile farlo, in un panorama di distruzione materiale – visto che la città non è ancora stata ricostruita, né la parte più colpita dalla guerra, né quella tirata giù dalle scosse – ma anche sociale ed economica. Qualche settimana fa Geir Pedersen, inviato speciale delle Nazioni Unite per la Siria, parlando ai rappresentanti del Consiglio di Sicurezza ha espresso profonda preoccupazione per la situazione regionale e per le sue ricadute in una nazione dove imperversano «conflitti irrisolti, violenza ribollente e fiammate di ostilità, ognuna delle quali potrebbe essere il focolaio di una nuova conflagrazione». In effetti, nelle campagne intorno ad Aleppo capita che ai droni lanciati dai ribelli anti-Assad, da anni asserragliati nella vicina Idlib, oggi si sovrappongano i missili provenienti da Israele, che bersaglia gli interessi e gli alleati degli iraniani nella regione. Intanto la gente, presa in mezzo da conflitti incrociati, è concentrata su come arrivare alla fine della giornata, mettendo almeno un pasto in tavola.
«La Siria è sempre più dimenticata dalla comunità internazionale: all’inizio di quest’anno lo stesso Programma alimentare mondiale dell’Onu ha tagliato i suoi interventi di assistenza affermando che non ci sono più fondi – denuncia padre Bahjat – ma i bisogni della gente non fanno che aumentare. Dopo il terremoto, poi, mancano le case agibili e il prezzo degli affitti è raddoppiato. Affittare un appartamento costa più del valore di uno stipendio mensile medio, e in molti purtroppo si trovano senza un tetto sulla testa». Tanti altri, disperati, hanno deciso di tornare nelle proprie abitazioni, in edifici in parte distrutti, nella totale insicurezza: la miseria non lascia alternative.
Nel Paese la situazione economica è preoccupante: dal 2020 la sterlina siriana ha subito un calo del suo valore di 15 volte rispetto al dollaro e nell’ultimo anno l’inflazione ha portato a raddoppiare i prezzi dei generi alimentari. E il sistema produttivo, anche ad Aleppo che prima della guerra era la capitale commerciale e industriale della nazione, è stato colpito mortalmente, mentre le sanzioni internazionali paralizzano ogni possibilità di ripartire. Lo Stato, da parte sua, è ormai assente: «Dal sistema scolastico alla sanità, le istituzioni non riescono a garantire il funzionamento dei servizi di base», spiega il sacerdote 48enne, che è nato e cresciuto ad Aleppo ma ha poi studiato diversi anni in Italia. Le scuole o non esistono più, perché ridotte in macerie, o non funzionano perché gli insegnanti non hanno i mezzi per raggiungere le aule. Per i ragazzi è spesso impossibile continuare gli studi ma anche frequentare gli istituti professionali, con gravi conseguenze per il mercato del lavoro: la disoccupazione cresce e la povertà dilaga. «E se ci si ammala, non si può contare su un sistema di welfare: le cure mediche si pagano, un intervento chirurgico ha costi vertiginosi».
Come sopravvive allora la gente? «Grazie alle rimesse dei parenti all’estero: ormai praticamente ogni famiglia ha almeno un membro che è emigrato. E poi attraverso il supporto di ong e istituzioni umanitarie. Oggi l’80% dei siriani ha bisogno di qualche forma di aiuto esterno». Il dato più alto dall’inizio della crisi nel 2011.
«Noi, come Chiesa, siamo in prima linea su diversi fronti di assistenza materiale, dalle forniture di pasti al sostegno ai giovani fino alla ricostruzione delle case danneggiate», racconta padre Karakach, punto di riferimento per le seicento famiglie della parrocchia di San Francesco, ma anche di molte altre, in questa città che tradizionalmente era la più multietnica e cosmopolita del Paese. «Diverse nostre iniziative escono dalle mura della chiesa e raggiungono tutti i siriani, senza distinzioni confessionali. Abbiamo alcuni progetti nei quartieri a maggioranza musulmana che erano stati occupati dai miliziani e dove oggi dilagano miseria e degrado. Oltre all’aiuto materiale, portiamo avanti interventi di sostegno psicologico per bambini orfani, abbandonati o figli di ex combattenti, anche attraverso attività artistiche e sportive. E poi lavoriamo per l’alfabetizzazione: ci sono donne che non sapevano leggere e oggi frequentano l’università. Piccoli segni di cambiamento che portano una ventata di speranza nel contesto di fatica e preoccupazione».
Per padre Bahjat, la Chiesa oggi rappresenta «una luce in mezzo all’oscurità». In che senso? «Ormai noi cristiani siamo pochi, eppure, a fianco del lavoro pastorale ordinario e del servizio sociale per aiutare i siriani a vivere con dignità, portiamo avanti un impegno educativo e di riconciliazione che rappresenta un investimento importante per il futuro della società. Lavorare insieme, dal basso, è un modo per abbattere il muro della diffidenza e ricostruire le relazioni». A cominciare dai giovani: «I ragazzi sono incredibilmente vivi e pieni di energia. Sono loro il cuore della nostra parrocchia: seguono il catechismo, i gruppi scout, gli interventi di sostegno psicologico per i più piccoli. Di fronte a nuovi progetti si dimostrano sempre pronti a entusiasmarsi e a impegnarsi in prima persona, nonostante le loro vite siano molto complicate. Tutti, anche chi prosegue negli studi, devono trovarsi un impiego, magari informale, per aiutare la famiglia: danno ripetizioni scolastiche, fanno lavoretti occasionali».
Proprio per questi giovani, privi di prospettive e tentati dall’emigrazione, i frati francescani promuovono dei microprogetti per chi punta ad avviare un’attività economica: «In molti sottopongono la propria proposta e poi noi selezioniamo le più promettenti, fornendo agli ideatori corsi di formazione su come si crea e si porta avanti un progetto commerciale, di cui poi sosteniamo il lancio».
Padre Karakach, tuttavia, ribadisce con forza la necessità che il mondo torni a occuparsi del futuro della Siria: «Non vogliamo essere per sempre mendicanti di aiuti e abbiamo gli strumenti per ricostruire il nostro Paese, ma è necessaria una soluzione alla crisi a cui deve contribuire anche la comunità internazionale, che a volte sembra disinteressata a stabilizzare il nostro territorio». La prima misura concreta? «Togliere le sanzioni economiche, che non solo aumentano la povertà della gente, ma creano terreno fertile per corruzione e illegalità». E, naturalmente, promuovere il cessate il fuoco a Gaza e la de-escalation regionale: «I siriani sono esausti della guerra, vorrebbero voltare finalmente pagina».