È un grido di denuncia, ma anche di speranza, che viene da una Chiesa che prova a essere autenticamente sinodale, partecipativa, missionaria e inculturata
La missione in Amazzonia ha il sapore di un Vangelo annunciato, testimoniato e vissuto non con la “testa sotto la sabbia” come fanno gli struzzi. Nella formazione integrale che diamo ai leader locali – laici, preti e seminaristi – cerchiamo di tenere un piede nella Parola e un altro nella situazione storica e geografica segnata dall’ingiustizia e dalla mancanza di prospettive specialmente per i più giovani. Come si legge in vari documenti, da Santarem (1972) all’Evangelii gaudium (2013), passando per Aparecida (2007), si tratta di rilanciare un modello di “Chiesa in uscita” verso le periferie geografiche ed esistenziali, portando avanti un’evangelizzazione liberatrice, inculturata e sinodale, dove tutto il Popolo di Dio è soggetto attivo e corresponsabile dell’evangelizzazione e dove si formano le persone a una ministerialità diffusa, con le donne e i giovani protagonisti. Il modello di Chiesa è quello di una “piramide rovesciata e poliedrica”, in contrapposizione a quella patologia tuttora presente che si chiama clericalismo.
I postumi dell’era-Bolsonaro si sentono ancora nell’aria, purtroppo: dopo gli eventi tragici del gennaio 2023, con l’assalto alle istituzioni democratiche del Brasile, alcuni gruppi sociali ed evangelici neo pentecostali si sono coalizzati contro il governo dell’attuale presidente Luiz Inácio Lula da Silva. L’obiettivo è arginare ogni processo democratico attraverso un tipo di predicazione fondamentalista basata sull’idolatrica teologia della prosperità che è l’esatto contrario del Vangelo e della dottrina sociale della Chiesa, ispirandosi alle dittature militari iperliberiste e oppressive specialmente nei confronti dei poveri, dei leader sociali e degli attivisti per i diritti umani e sociali. In altre parole, il “bolsonarismo” non è ancora sparito.
Le Chiese dell’Amazzonia, fedeli al Vangelo della vita, in comunione con Papa Francesco e tutta la Chiesa universale, vogliono formare comunità autenticamente sinodali, missionarie e inculturate con un “volto amazzonico”, sperando un giorno di arrivare ad avere anche un rito proprio, come auspicato da Papa Francesco nella Lettera Querida Amazonia.
In questa Chiesa imparo anch’io a stare al passo dei poveri che, a differenza del cinismo e dell’apatia che regnano in Europa e nel Nord del mondo, qui sono pieni di speranza in un altro mondo possibile come Dio lo ha sognato. Per questo imparo da loro, mi lascio evangelizzare da loro, cerco di ascoltare più che insegnare e allo stesso tempo mi sforzo di offrire quegli strumenti intellettuali che consentono di smascherare la realtà di esclusione e di ridare loro la Parola negata per tanto tempo. In qualche modo, si tratta di applicare l’insegnamento di don Lorenzo Milani in Amazzonia, con una teologia dialogale, interculturale, transculturale, aperta alla molteplicità dei saperi, come bene ha indicato Papa Francesco nella Veritatis gaudium.
Imparare dai popoli originari significa anche proporre uno stile profondamente ecologico, rispettoso dell’agire comunitario e simbolico, attraverso riti, simboli e miti che, come ha detto bene il cardinale Felipe Arizmendi, responsabile della pastorale indigena in America Latina, possono entrare a pieno titolo nella teologia della Chiesa, smussandone quegli aspetti marcatamente logocentrici e rilanciando un tipo di teologia contestuale e più fedele ai popoli indigeni.
Il futuro della Chiesa e del pianeta verrà dal Sud del mondo e dal modello ecologico dei popoli originari che con il loro “o bem viver” (“il viver bene”) si oppongono al modello capitalista estrattivista che tanti problemi sta creando alla nostra “Casa comune”.
Ce l’ha ricordato con forza anche Papa Francesco sia nella Laudato si’ che nella Laudate Deum, in cui ci mette in guardia e ci stimola ad agire subito e fattivamente, cambiando i nostri stili di vita e costruendo un’economia circolare e dei “beni comuni”.
È bello e incoraggiante vedere come qui il vescovo e i preti si rechino regolarmente all’interno della foresta, nelle periferie urbane o nelle villas miserias; è confortante assistere all’ordinazione di più di 70 diaconi permanenti e all’istituzione del lettorato e accolitato delle animatrici di comunità; scalda il cuore vedere i giovani protagonisti di processi pastorali.
Anche la notizia della mancata ratifica, nel novembre scorso da parte del Parlamento brasiliano, della legge che impedisce la sottrazione dei territori indigeni fa ben sperare: qualcosa di nuovo sta avvenendo, la politica in Brasile s’impegna ad arrestare l’inesorabile deforestazione e a proteggere maggiormente le popolazioni dell’Amazzonia.
Un punto dolente rimane invece la questione dei combustibili fossili su cui Lula non ha voluto prendere posizione nell’ultima COP28 di Dubai, insieme ad altri produttori di petrolio. Con la Rete ecclesiale panamazzonica (Repam) ci siamo impegnati a portare avanti una formazione capillare che sensibilizzi la cittadinanza sull’urgenza dell’ecologia integrale che è autentica se parte da una coscienza purificata dall’individualismo e contagiata da quelle che san Giovanni Paolo II chiamava le “strutture di peccato”.
Solo una Chiesa fedele al Vangelo e alla profezia del Vaticano II, solo una Chiesa povera e per i poveri, solo una Chiesa della pace disposta a pagare per le sue scelte, come ben aveva detto monsignor Luigi Bettazzi, potrà rappresentare quella “sentinella del mattino” che annuncia albe nuove.