Grazie a un centro di arte-terapia, un fotografo del Benin aiuta persone con malattie mentali a esprimersi. Alcune si sono rivelate dei veri talenti. Un’iniziativa che mira anche a combattere i pregiudizi e le paure
Se non fosse per i murales, che spiccano sul muro rossastro, e per la grande targa dipinta a mano che informa i passanti che “l’arte è al servizio della salute mentale”, il Centro di arte-terapia dell’ong Vie et Solidarité si mimetizzerebbe facilmente tra le case basse di Tokpota, un calmo quartiere residenziale di Porto Novo, la capitale del Benin.
Dal portone spalancato sul largo viale alberato in terra battuta arriva distintamente il vociare allegro e giovanile di una decina di persone, che si raccolgono disordinatamente nel cortile interno. È mercoledì pomeriggio, l’atelier di pittura è finito da poco e gli educatori stanno aiutando i partecipanti a mettere via colori e pennelli e a organizzare le postazioni di un gioco di destrezza e rapidità a squadre. L’atmosfera rilassata ricorda quella di un doposcuola come tanti, ma in realtà questo centro è l’unico del Paese a proporre ufficialmente attività artistiche, culturali e motorie a fini terapeutici per persone con disabilità intellettive e psichiche, come la sindrome di Down, l’autismo o gravi ritardi e malattie mentali. Molti degli “utenti” del Centro non solo hanno migliorato le loro condizioni psico-sociali, ma sono artisti a tutti gli effetti e oggi espongono le loro opere sia in Benin che all’estero, contribuendo a combattere lo stigma legato alla salute mentale.
Fortemente voluto dal fotografo beninese di fama internazionale Louis Oke-Agbo, che lo ha finanziato con fondi propri, il Centro ha iniziato le sue attività nel 2017 e oggi accompagna una ventina di giovani e adulti. «Nel corso degli anni, attraverso i miei ritratti di persone disabili che vivono per strada in tutto il Benin, sono diventato in un certo senso il loro portavoce. E in questo modo cerco di sensibilizzare la popolazione sulla questione della salute mentale – spiega Oke-Agbo -. Qui, la “follia” fa ancora paura. Le persone con disabilità mentali vengono allontanate, evitate, isolate, per superstizione o per timore che diventino aggressive. Io invece ho cercato di avvicinarmi a loro e di aiutarle, all’inizio attraverso la fotografia. Quand’ero piccolo e vivevo ancora al villaggio, risparmiavo un po’ di soldi ogni giorno per poter pagare il fotografo che passava di lì una volta all’anno. Era un momento speciale, non tutti potevano permettersi una foto e farsi fare un ritratto era un onore. Così, quando sono diventato a mia volta fotografo, ho avuto l’idea di avvicinarmi ai malati mentali che incontravo per strada, proponendo loro di fargli una foto, che poi gli regalavo. E così mi hanno accettato, si sono interessati a me, abbiamo instaurato un dialogo a volte molto tenero. Alcuni hanno iniziato a venire in studio e uno di loro, Gérard, è diventato il mio assistente. È con lui che abbiamo deciso di aprire un centro dove i “folli” avrebbero potuto esprimersi attraverso l’arte».
Inizialmente, spinto da due psicologhe conosciute durante le sue ricerche sul tema della salute mentale e l’arte in Europa, Oke-Agbo ha presentato un progetto di atelier artistici per i pazienti ai responsabili dell’ospedale psichiatrico Jacquot di Cotonou, l’unico del Benin. Ma la sua proposta è rimasta lettera morta. Nel 2015 decide quindi di creare l’associazione Vie et Solidarité ed espone le sue foto nelle piazze di varie città del Paese, attirando l’attenzione delle famiglie, che lo chiamano in cerca di aiuto e consigli per figli e parenti con problemi psichici.
«Il Centro nasce anche per rispondere alle richieste d’aiuto dei familiari – spiega il fotografo -. Perché, anche se non vengono rinchiusi e riescono ad accedere a un trattamento farmacologico, i pazienti sono generalmente rispediti a casa senza assistenza né controlli regolari». Oltre a ritrovarsi con persone stordite da farmaci di cui non possono calibrare le dosi, molte famiglie non riescono ad affrontare le spese. Il costo di una visita medica in uno dei centri dell’associazione Saint Camille de Lellis, la principale rete non governativa dedicata alla salute mentale nella regione e praticamente l’unica presente, si aggira attorno ai 5 mila franchi Cfa (8 euro), a cui si deve aggiungere quello delle medicine, a fronte di un salario minimo mensile di circa 80 euro.
«È la stessa cifra che chiediamo per un mese di attività, cioè tre giorni di atelier a settimana, da mercoledì a venerdì, pasti compresi – precisa Carole Oudet, la direttrice del Centro, mentre osserva con occhio attento i suoi “pazienti” che giocano in cortile. Ex professoressa di pittura diventata arte-terapeuta, Oudet lavorava vicino a Parigi quando, nel 2021, ha incontrato Oke-Agbo e ha accettato di coordinare le attività della struttura. Affiancata da due volontari, in meno di due anni è riuscita a diversificare gli atelier, inizialmente centrati sulla fotografia, introducendo corsi di ceramica, musica e pittura. Negli ultimi mesi ha aggiunto al programma gli interventi di una giovane coreografa di hip-hop e quelli di un marionettista più una sessione di racconti terapeutici. Le tappe del gioco di squadra, invece, sono state preparate con cura da lei, seguendo i principi della neuro psicomotricità.
Mentre il gruppo vincitore festeggia con una merenda speciale, nell’aria risuona musica a tutto volume: come da tradizione, la giornata si chiude con un momento di danza collettiva e liberatoria, che coinvolge persino chi era assorbito dal tavolo da calcetto. Uno spettacolo che attira una piccola folla ammassata sulla soglia del Centro, tra curiosità, sorrisi e diffidenza. «All’inizio gli abitanti tiravano le pietre ai ragazzi – ricorda Louis Oke-Agbo – ma le cose sono cambiate, anche grazie agli open day con artisti e professionisti della salute mentale». Carole Oudet racconta che i ragazzini del quartiere spesso si fanno coraggio e vengono a ballare o a giocare a calcetto: «I più giovani hanno meno pregiudizi e meno paura. Mi piacerebbe poter andare nelle scuole per spiegare quello che facciamo, ma per ora non è possibile. Non abbiamo abbastanza personale nemmeno per aprire tutti i giorni o per sensibilizzare le famiglie, che spesso continuano a stigmatizzare chi ha problemi mentali».
Nonostante la struttura abbia ottenuto la certificazione di Centro di arte-terapia dal ministero della Salute nel 2022 e abbia stretto un partenariato con il ministero della Cultura nel 2023, non ha ottenuto alcun finanziamento. La psichiatra volontaria che veniva al centro una volta a settimana ha dovuto rinunciare all’incarico per mancanza di fondi, ma la direttrice è ottimista: «Ci contattano dal Congo, dal Togo e dalla Costa d’Avorio perché vorrebbero seguire il nostro esempio e continuiamo a dialogare con le istituzioni beninesi. I progressi sono lenti ma ci sono».
Per fortuna, il successo di alcuni pazienti/artisti permette di finanziare parte delle attività grazie alla vendita dei loro lavori e alle mostre. Lo scorso ottobre, 11 di loro hanno partecipato alla decima Biennale Hors Normes di Lione e 5 delle opere esposte sono state selezionate per una tournée in Madagascar e in Benin. I lavori di Benjamin Savoeda (33 anni) e Amidath Agbodedji (20) hanno talmente colpito i responsabili della Ferme du Vinatier, una struttura culturale d’avanguardia all’interno di uno dei più grandi ospedali psichiatrici francesi, che i due sono stati invitati a partecipare a una residenza artistica a Lione in aprile: una decina di giorni dedicati alle cure e alla pratica accompagnati da Louis Oke-Agbo, in veste di mentore e traduttore. «Anche chi ha una disabilità può scoprire di avere un talento nascosto – sorride il fotografo -. Grazie all’arte, oggi le famiglie di questi ragazzi sono fiere di loro, non li vedono come un peso, non se ne vergognano e non li temono più. Ma la cosa più importante è che l’arte offre a loro la libertà di esprimersi e di trovare se stessi e a noi un modo di non lasciarli soli».