Sono ormai quasi 9 milioni le persone in fuga a causa del conflitto scoppiato in Sudan nell’aprile 2023. Ma i pochissimi che raggiungono le coste del Mediterraneo rischiano di essere trattati da criminali. Come è successo recentemente in Tunisia
Adesso che hanno cominciato a raggiugere le coste del Mediterraneo e a sbarcare anche in Italia, forse qualcuno comincia ad accorgersene. Sono una piccola, piccolissima parte di quell’enormità di profughi e sfollati in fuga dalla guerra che dall’aprile 2023 sta devastando il Sudan. Quasi 9 milioni di persone (su una popolazione di circa 47 milioni) sono stati costretti a lasciare tutto precipitosamente: la maggior parte (circa 7 milioni) è sfollata interna, mentre altri due milioni hanno cercato rifugio nei Paesi limitrofi, principalmente Ciad (circa 600 mila) ed Egitto (500 mila). Anche il Sud Sudan – un Paese che vive nella più assoluta povertà e precarietà – si è trovato ad accogliere circa 550 mila ex profughi sudsudanesi che si erano rifugiati nel Nord e che sono tornati indietro senza nulla e che non hanno trovato niente, neppure un pezzetto di terra dove ricominciare tutto da zero un’altra volta ancora.
In Italia, nel corso del 2023, sono sbarcati 5.834 sudanesi, decima nazionalità tra coloro che sono arrivati passando dal Nordafrica. Da gennaio a metà maggio 2024 sono stati 585. Nulla rispetto all’esodo massiccio e alla catastrofe umanitaria che si stanno vivendo oggi in Sudan. Eppure anche questi piccoli numeri stanno avendo ripercussioni politiche, sociali e di sicurezza in Paesi come la Tunisia, che non sono certo la meta più vicina né la più ricercata dai sudanesi in fuga.
Nelle scorse settimane, infatti, si sono nuovamente verificati gravi incidenti. A inizio maggio, le forze dell’ordine hanno arrestato ed espulso centinaia di migranti che si erano accampati nei pressi degli uffici dell’Organizzazione mondiale delle migrazioni (Oim) a Tunisi, in attesa di essere rimpatriati soprattutto in Africa occidentale e centrale, e dell’Alto Commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr), soprattutto sudanesi e profughi dell’Africa orientale, richiedenti la protezione umanitaria. Una simile operazione su vasta scala era stata condotta anche la settimana precedente nella regione di Sfax. Lo stesso capo dello Stato, Kaïs Saïed – che già nel febbraio 2023 aveva giocato pericolosamente la carta dell’odio xenofobo contro quelle che definiva «orde di migranti clandestini» intenzionati a mettere in discussione l’identità arabo-islamica del Paese -, è intervenuto personalmente per confermare l’«espulsione alla frontiera orientale di 400 persone, in accordo con i governi vicini». Inoltre, ha accusato le associazioni della società civile che si occupano dei migranti di «ricevere enormi somme di denaro dall’estero», accusando i loro responsabili di essere «traditori» e «agenti» stranieri: «Non c’è posto per associazioni che potrebbero rimpiazzare lo Stato», ha detto Saïed, ribadendo «ai capi di Stato e al mondo intero che la Tunisia farà di tutto per non diventare un punto di passaggio per coloro che si dirigono verso i Paesi del Nord del Mediterraneo».
Un discorso a cui è molto sensibile anche la presidente del Consiglio Giorgia Meloni, che lo scorso aprile è tornata per la quarta volta in Tunisia, dove ha firmato accordi per lo sviluppo delle energie rinnovabili, la cooperazione con le università e l’apertura di una linea di credito per le piccole e medie imprese tunisine. Senza dimenticare le questioni migratorie. L’Italia infatti ha avuto un ruolo decisivo nella definizione del Memorandum tra Unione Europea e Tunisia e ha finanziato con 4.8 milioni di euro sei motovedette destinate alla Guardia Nazionale tunisina, sul modello della collaborazione con la Libia, in chiave anti-sbarchi. Un provvedimento contro il quale hanno fatto ricorso al Tar del Lazio diverse organizzazioni: Asgi, Arci, ActionAid, Mediterranea Saving Humans, Spazi Circolari e Le Carbet.
Sono solo alcune delle molte voci della società civile che si sono alzate sia in Italia che in Tunisia contro le politiche di esternalizzazione delle frontiere, ma anche contro la repressione interna del governo tunisino. Secondo la direttrice dell’ufficio di Human Rights Watch di Tunisi, anche i recenti arresti e le espulsioni sono stati condotti «senza alcuna valutazione caso per caso dello status delle persone, al di fuori di qualsiasi Stato di diritto e di quadro legale. Sono state identificate semplicemente come nere e come provenienti da Paesi africani».
Gli arresti hanno riguardato anche alcuni attivisti, giornalisti e avvocati locali. Il presidente e il vice presidente del Consiglio tunisino dei rifugiati – che collabora con l’Unhcr nella registrazione dei richiedenti asilo con l’autorizzazione delle autorità tunisine – sono stati accusati di «associazione a delinquere finalizzata ad agevolare l’accesso delle persone nel territorio tunisino».
Il 10 maggio il Comitato Onu per i diritti umani ha accolto la richiesta di misure di urgenza a tutela di un gruppo di rifugiati e richiedenti asilo di nazionalità sudanese, tra cui minori e individui bisognosi di cure, abbandonati al confine con l’Algeria. Nonostante l’ordine di protezione intimato alla Tunisia, l’11 maggio i ricorrenti hanno riferito di essere stati arrestati dalla Guardia nazionale e da allora non si hanno più notizie del gruppo, riporta Mediterranea Saving Humans.
Questa situazione di estrema vulnerabilità riguarda oggi tutti i profughi e gli sfollati sudanesi, sia nelle nazioni che li hanno accolti sia all’interno del loro Paese, anche perché circa il 75% sono donne e bambini, una percentuale che in Ciad sale addirittura all’88%. Molti di loro non hanno accesso al cibo, all’acqua, a un riparo e a beni di prima necessità, come testimonia anche fratel Fabio Mussi, missionario del Pime in Ciad, che ha avviato una serie di iniziative d’emergenza al confine con il Sudan.
«Qui, tutti i giorni, si riversano migliaia di persone in fuga dai combattimenti che stanno interessando in particolare il Darfur. E le agenzie umanitarie non riescono a distribuire regolarmente il cibo per tutti. Per questo, come Caritas e Vicariato di Mongo, abbiamo deciso di aiutare le donne a produrre dei legumi. Certamente queste iniziative non riusciranno a sfamare tutti gli 80 mila abitanti di uno dei campi dove siamo presenti, quello di Métché, ma abbiamo iniziato con quattro gruppi lo scorso febbraio e questo sta incoraggiando anche altre donne».
Purtroppo, però, l’esodo non si arresta, anche perché proprio il Darfur è al centro dei combattimenti più violenti di questi ultimi mesi. Lo scorso 11 maggio, le forze armate governative hanno bombardato un’area a ridosso dall’ospedale pediatrico Babiker Nahar di El Fasher supportato da Medici senza frontiere (Msf), danneggiando l’unità di terapia intensiva e provocando la morte di due bambini ricoverati e di almeno un loro accompagnatore. «Dei 115 bambini in cura, ora non c’è più nessuno – denuncia Michel-Olivier Lacharité, responsabile per le emergenze di Msf -. Era uno dei pochissimi ospedali pediatrici rimasti in Darfur. Riceveva pazienti da tutta la regione, poiché molte altre strutture sono state costrette a chiudere».
Ma sono soprattutto le Forze di Supporto Rapido (Fsr), che si contrappongono all’esercito, a essere responsabili delle peggiori atrocità in questa regione. Del resto, le Fsr non sono altro che l’“evoluzione” dei famigerati janjaweed, i cosiddetti “demoni a cavallo”, guidati da Mohamed Hamdan Dagalo, detto Hemeti, che già all’inizio degli anni Duemila avevano commesso stragi, saccheggi e violenze di ogni genere. Ancora oggi – con la complicità degli ex mercenari della Wagner – sarebbero responsabili di massacri indiscriminati, torture e stupri. Lo scorso maggio, Human Rights Watch ha pubblicato un report in cui accusa espressamente le milizie di Hemeti di genocidio nel «contesto di una campagna di pulizia etnica contro i masalit e altre popolazione non arabe», in particolare nei pressi della città di el-Geneina, capitale del Darfur occidentale. Anche le Nazioni Unite hanno messo in guardia contro un «ulteriore ed esponenziale spargimento di sangue di civili e profughi inermi, colpiti dal fuoco incrociato, privati di cibo, acqua, medicine e senza aiuti umanitari in una regione già sull’orlo della carestia». Per il momento, però, non si vede da nessuna parte la volontà di fare pace.