Il presidente Xi Jinping chiede alle religioni di “sinicizzarsi”. Ma in questa visione c’è spazio per un’inculturazione non piegata al nazionalismo? Voci a confronto su un tema cruciale nel rapporto tra Roma e Pechino
Un anniversario importante per la Chiesa in Cina. Ma anche un’occasione per riflettere sui rapporti di oggi tra Pechino e le sue comunità cattoliche. Il centenario del Concilio di Shanghai – primo storico raduno dei vescovi presenti in Cina nel 1924 (cfr. pp 8-9) – sta diventando in queste settimane l’occasione per una serie di riflessioni che hanno al centro il tema dell’inculturazione del cristianesimo nel contesto cinese. Questione cruciale per la missione a ogni latitudine, ma che per la Cina oggi assume una connotazione particolare. C’è infatti un termine che il presidente Xi Jinping ripete in maniera quasi ossessiva parlando di religioni: dice che è necessaria una “sinicizzazione” per adeguarle al contesto della “nuova era” da lui tratteggiata. Fin dai tempi del grande missionario gesuita Matteo Ricci (1552-1610) la questione del dialogo e dell’amicizia tra il Vangelo, il pensiero e le tradizioni del popolo cinese è stato un tema all’ordine del giorno. E in questo percorso non sono mancati errori e incomprensioni: proprio a sanarli, con una netta presa di distanze da ogni stile coloniale, spingeva un secolo fa Papa Benedetto XV, che con la sua lettera apostolica Maximum Illud ispirò il Concilio di Shanghai. Ma si può davvero sovrapporre questo percorso alla “sinicizzazione” di cui oggi la Cina parla?
La domanda è scottante anche alla luce del cammino aperto nel 2018 dalla firma dell’Accordo provvisorio con Pechino sulla nomina dei vescovi voluto da Papa Francesco. In forza di questa svolta oggi tutti i vescovi in Cina sono in comunione con Roma e alcuni di loro prendono parte anche al Sinodo in Vaticano. Contemporaneamente, però, restano evidenti i condizionamenti del governo di Pechino: gli stessi vescovi partecipano anche alle Assemblee del Partito comunista cinese e sono chiamati a rilanciarne gli slogan. È questo – dunque – il significato vero della “sinicizzazione”?
«L’idea non è nuova, politiche religiose di questo tipo erano state praticate fin dai primi anni Cinquanta – ci risponde la professoressa Wang Meixiu, docente emerito dell’Istituto delle religioni mondiali dell’Accademia cinese delle scienze sociali di Pechino -. Va anche ricordato che la “sinicizzazione” riguarda tutte e cinque le religioni riconosciute nella Cina continentale (cristianesimo cattolico, cristianesimo protestante, islam, buddhismo e taoismo – ndr), non solo specificamente la Chiesa cattolica. Quando il presidente Xi ha iniziato a parlarne nel 2016 erano passati già quasi quarant’anni dalle prime aperture della Cina continentale: nelle case sono arrivati libri, film, strumenti tecnici, i cittadini sono potuti uscire a vedere il mondo. Ci si domandava: prenderanno a modello altri Paesi sviluppati? È dentro questo contesto che va collocata la “sinicizzazione”. Mira a rafforzare la leadership del Partito nella dimensione religiosa, parallelamente alla sua enfatizzazione in altri aspetti, come l’idea di uno stile cinese del marxismo o della modernizzazione».
Il tema è emerso anche lo scorso 21 maggio a Roma nel convegno che, alla Pontificia Università Urbaniana, ha ricordato il centenario del Concilio cinese. Tra gli ospiti giunti dalla Repubblica popolare c’era anche il vescovo di Shanghai monsignor Giuseppe Shen Bin, il presule, al centro, l’anno scorso della “crisi” con il Vaticano, per il suo trasferimento nella sede episcopale più importante deciso autonomamente da Pechino e poi “sanato” tre mesi dopo con la ratifica di Papa Francesco. Shen Bin oggi è il volto più autorevole degli organismi “ufficiali” della Chiesa in Cina; per questo la sua lettura dell’anniversario del 1924 era molto attesa.
Il vescovo di Shanghai ha rivendicato «la fedeltà al Vangelo di Cristo» nello sviluppo della Chiesa in Cina anche dopo la nascita della Repubblica popolare nel 1949. Ha sostenuto che la «politica della libertà religiosa attuata dal governo cinese non ha alcun interesse a cambiare la fede cattolica»; le autorità sperano solo che il clero e i fedeli «difendano gli interessi del popolo cinese e si liberino dal controllo di potenze straniere». E ha spiegato che oggi lo sviluppo della Chiesa in Cina deve «essere in linea con la grande rinascita della nazione cinese nel mondo globale». «Spesso – ha aggiunto – diciamo che la fede non ha confini, ma i credenti hanno una propria patria e una loro cultura, nata da quella patria».
In una prospettiva del genere, non c’è però il rischio che a contare sia solo il nazionalismo? In Cina c’è chi guarda con perplessità al tempo abbondante che il clero, le religiose e i laici devono dedicare a conferenze organizzate dai dipartimenti governativi, apprendendo di più sulle politiche religiose, sui regolamenti, sulla storia moderna della Cina che sulla loro missione. «Ogni istituzione religiosa organizza conferenze sulla “sinicizzazione” – racconta un accademico cattolico di Shanghai che ci ha chiesto l’anonimato per potersi esprimere liberamente -, le amministrazioni incoraggiano a convocare questi incontri e a pubblicare antologie di documenti. La forma mette in ombra la sostanza».
Il problema sta nelle finalità: «Inculturazione nella Chiesa cattolica, indigenizzazione nelle Chiese protestanti, localizzazione nella sociologia della religione: sono tutte formule utilizzate da tempo per discutere dell’incontro tra il Vangelo e la cultura locale. Ma la proposta della “sinicizzazione“ – osserva il nostro interlocutore – ha implicazioni politiche molto più forti. Le attività religiose vengono regolamentate in maniera eccessiva per allinearle all’ideologia statale. E l’insistenza su questa forma funziona: le conferenze sulla “sinicizzazione” diventano un irresistibile schema propagandistico, in cui i pensieri si perdono e il linguaggio viene rimodellato».
Cita una frase che l’allora vescovo di Shanghai, Aloysius Jin Luxian, pronunciò nel 1987: «Diceva: “Chi vuole ottenere un certo statuspolitico attraverso la Chiesa, non ha bisogno di stare nella Chiesa”. Oggi è vero il contrario: per certe persone entrare in chiesa sembra essere diventata una scorciatoia per la fama laica o politica. Ho sentito alcuni vescovi dire: “La Santa Sede è il padre, il Partito è la madre. È stata mia madre a darmi la diocesi e ad aiutarci quando ne avevamo bisogno. Ora però devo ascoltare pure mio padre, anche quando punta il dito”».
«L’accordo sulla nomina dei vescovi – conclude questo commentatore cattolico di Shanghai – è utile per l’unità della Chiesa universale. Ma alcuni trascurano le sue norme quando non sono a loro favore. Sanno che la Santa Sede gli dirà comunque di sì. Li chiamiamo i “figli del mondo”. Mentre invece – oggi come nel 1924 – avremmo bisogno di una Conferenza episcopale in piena comunione con Roma e con la capacità di fornire una guida chiara sulle questioni della Chiesa e tante altre situazioni».
Non va però sottovalutato il fatto che oggi il cattolicesimo cinese si riconosca espressamente parte della Chiesa universale. «Nell’attuale statuto della Conferenza episcopale della Chiesa cattolica in Cina (l’organismo “ufficiale” dei vescovi, finora non riconosciuto dalla Santa Sede – ndr), uno degli articoli – ricorda la professoressa Wang – stabilisce che il suo obiettivo, “sulla base della tradizione della Chiesa una, santa, cattolica e apostolica e dello spirito del Concilio Vaticano II”, è “proteggere il tesoro della fede e, con la grazia dello Spirito Santo, diffondere il Vangelo ed espandere la Santa Chiesa”. È solo dopo questa premessa che vengono affermate la rivendicazione politica di abbracciare la leadership del Partito e del sistema socialista. Del resto, i fedeli cinesi pregano per il Papa ogni giorno. E immagino che tutti i vescovi desiderino di poter compiere un giorno le loro visite ad limina in Vaticano».
Si tratta dunque di raccogliere la sfida di una Chiesa dal volto autenticamente cinese. Ma senza coprire con le ferite del passato ambizioni politiche di oggi. Non a caso nelle conclusioni del convegno all’Università Urbaniana il cardinale Luis Antonio Tagle, pro-prefetto del dicastero dell’Evangelizzazione, ha insistito sulla necessità di far dialogare tra loro universalità della Chiesa e dimensione locale nella prospettiva della fraternità. Altrimenti il rischio è che le specificità diventino «forme di chiusura in se stessi, introversioni incapaci di dialogo e dunque, alla lunga, sterili e infruttuosi ripiegamenti narcisistici». Il tutto riconoscendo che «le vicende dei fratelli cinesi – ha detto ancora Tagle – hanno qualcosa di importante da mostrare e da condividere con la Chiesa universale. Ci possono essere problemi, incomprensioni, incidenti, ma mai tiepidezza e indifferenza rispetto al cammino della Chiesa in Cina».