Un programma dei Frati Minori Cappuccini usa il teatro per riabilitare i bambini trasformati in piccoli jihadisti in Siria. A partire da un diverso concetto dell’islam. Come racconta il libro di fra’ Stefano Luca
Nel libro I cuccioli dell’Isis. L’ultima degenerazione dei bambini soldato (Edizioni Terra Santa, pp. 160, euro 15), di cui proponiamo qui sotto uno stralcio, il frate minore cappuccino Stefano Luca svela il processo di reclutamento dei minori da parte dell’Isis nelle sue diverse fasi: le giustificazioni storiche, le motivazioni, l’addestramento e i ruoli ricoperti dai bambini denominati “cuccioli del califfato”. E racconta l’impegno dei Cappuccini per salvarli.
Il programma Ḍidda al-Taṭarruf (“Contro l’estremismo”) vede i suoi prodromi nel 2016 quando, come Provincia religiosa dei Frati Minori Cappuccini di Lombardia, creammo l’intervento missionario Rehabilitation and Reintegration Social Theatre Program (RRSTP, Programma di teatro sociale per la riabilitazione e la reintegrazione) specifico per l’Africa subsahariana in favore dei bambini formalmente associati a gruppi e forze armate (“bambini soldato”). Rendendoci conto di come non si potesse semplicemente applicare quest’ultimo a una realtà fortemente diversa come quella dei “bambini estremisti”, abbiamo dedicato anni di studio, ricerca ed esperienza sul terreno e così è nato Ḍidda al-Taṭarruf. Il programma oggi è uno strumento al servizio di tutto l’Ordine cappuccino e questo ne facilità non solo la diffusione, ma anche e soprattutto la sua applicazione concreta.
Occorre precisare che ad oggi molti di questi bambini sono detenuti in particolari sezioni a loro dedicate dentro ai campi profughi dei Paesi mediorientali. Se da un lato ghettizzarli è una reazione umanamente comprensibile viste le atrocità perpetrate da Daesh (sigla araba per Isis, ndr), dall’altra non ci si rende conto che se non si opera una profonda deradicalizzazione specifica si alimenterà ancora di più il focolare jihadista del futuro. In questa complessa situazione i bambini sono le vere vittime. Essi infatti – come ha affermato Georges Abou Khazen, vicario apostolico dei cattolici latini in Siria – «esistono e non esistono, perché non sono registrati all’anagrafe e senza registrazione non possono essere iscritti a scuola […] occorre dare un “nome” e un “futuro” per aiutare questi bambini ad avere un avvenire».
Un “nome” e un “futuro”, proprio queste sono le due direttive intorno alle quali si basa Ḍidda al-Taṭarruf. Ritrovare il proprio nome significa rifondare l’identità personale e sociale fuori dallo Stato islamico. Comprendere innanzitutto che il mondo non è ignoranza (ǧāhiliyya) tout court significa decostruire la grammatica jihadista per ri-costruire pensieri e azioni orientati a un’interpretazione di fede diversa da quella proposta da Daesh. Ritrovare il proprio nome corrisponde quindi alla riabilitazione integrale di sé in relazione al nuovo volto di Dio.
Ritrovare il proprio futuro significa prendere distanza da genitori che concepiscono figli generandoli come cittadini jihadisti. Occorre rompere legami famigliari di sangue psicologicamente ed educativamente imprigionanti, per ri-costruirne nuovi, liberanti e responsabilizzanti. Sulla base di questi due vettori il percorso di riabilitazione necessita di una grande collaborazione con le figure più autorevoli del luogo e soprattutto con le autorità religiose islamiche presenti dove questi piccoli sono detenuti.
Il programma si articola in tre macro fasi: Demechanization (de-meccanizzazione), Foster family (famiglia affidataria) e Self-sufficiency (autonomia).
1) De-mechanization: è l’elemento caratterizzante. Ci rendiamo conto di come non basti de-radicalizzare un bambino del Daesh, ma occorra de-costruire la macchina che lo Stato Islamico ha generato nel suo allevamento di “baby jihadisti” smontando ogni elemento corporeo, psicologico, religioso ed emotivo che Daesh ha posto in essere in questi bambini. A questa pars destruens segue la pars costruens che vede la tessitura di una narrazione opposta.
Questa delicata fase viene svolta con un’azione sistemica di presa di cura denominata “Teatro sociale”. Attraverso tecniche e processi laboratoriali teatrali questa metodologia interviene, anche attraverso l’attenzione al linguaggio para-verbale e non-verbale, innanzitutto sul corpo. Molti sono oggi gli approcci psicoanalitici che individuano proprio questa centralità del corpo come essenziale. Quest’ultimo è infatti luogo privilegiato di memoria di ogni interazione comunicativa.
Avendo il corpo di questi bambini appreso una grammatica di violenza tale da bloccare la possibilità di una conversione del cuore, lavorare sul loro corpo diviene l’unico tentativo possibile per scardinare tale grammatica e porre in essere una sua riscrittura poggiante sull’Alterità relazionale capace d’Amore.
I principali contenuti di questo processo destruens e costruens sono le life skills (competenze per la vita). Queste sono affrontate con l’apporto delle figure religiose locali, così da ricostruire una religiosità in netta opposizione alla narrativa teologica, sociale, politica del Daesh.
Essendo il teatro “luogo del ritrovamento di sé, della propria storia, della propria dimensione di soggetto e del proprio ruolo all’interno del mondo che abitiamo”, in questa prima fase gli output principali sono: ricostruzione dell’identità personale, del rispetto e dell’ascolto altrui, riconoscimento delle proprie emozioni, scoperta di un linguaggio del corpo non violento, comunicazione con coetanei e adulti, sviluppo della fiducia, rispetto, aumento della resilienza, speranza per il futuro. Oltre al lavoro diretto con i bambini, viene svolta una “formAzione” intensiva rivolta a operatori locali.
2) Foster family: il bambino è affidato a famiglie che, aiutate economicamente, sono disponibili anche a un percorso che le abiliti a operare in sintonia con il programma e a prendere in affido un bambino fino alla maggiore età senza quindi trasmettergli cognome e beni. La formula dell’affido, essendo differente dall’adozione che è proibita nell’islam, è stata ritenuta legalmente lecita da diverse figure di rilievo nel panorama islamico. L’affido garantirebbe l’accompagnamento nella crescita e il sostegno nel lungo e complesso percorso di riabilitazione. Questa seconda fase deve terminare al massimo con il compimento del 18° anno di età del bambino.
3) Self-sufficiency: prevede che il bambino, ormai diciottenne, esca dalla famiglia affidataria e si inserisca in completa autonomia nella società.