Nella rivendicazione del massacro avvenuto a Mosca, lo Stato islamico ripropone la stessa espressione con cui marchiava le case dei cristiani a Mosul. Il commento del professor Paolo Branca, grande conoscitore del mondo islamico: «Motivi o pretesti identitari alimentano ombre di un oscuro passato che mettono a rischio la convivenza di interi popoli»
Come forse si ricorderà, già in passato l’Isis ha discriminato e ucciso cristiani per il solo fatto di essere tali, la lettera “N” in arabo fu utilizzata per marchiare case o edifici appartenenti appunto a “nazareni”, come il Corano ci definisce. La rivendicazione del massacro avvenuto a Mosca ora li nomina esplicitamente come target dell’atto terroristico. Dalla feroce repressione in Cecenia fino all’appoggio del regime siriano, Putin – nonostante tutto – è nel loro mirino e per di più ora distratto dalla guerra in Ucraina. Il suo recupero dell’ortodossia del resto (va in chiesa ma non fa la comunione) rientra perfettamente nel cinico uso della religione tipico di molti regimi autoritari.
Gli arabi cristiani, invece, per dichiarare la loro appartenenza religiosa, utilizzano un altro termine che deriva da Messia. Un occidentale moderno potrebbe rimanere sconvolto dal fatto che ancora oggi, e non di rado, forme di violenza estrema si possano verificare contro qualcuno unicamente per via della sua fede. Ci siamo illusi che, avendo superato dopo secoli le guerre di religione in casa nostra, la cosa non si sarebbe più ripetuta nemmeno altrove.
A dire il vero la componente confessionale non è stata assente nella guerra civile in Irlanda del Nord, fortunatamente poi superata, e ancora cova sotto la cenere nei Balcani. L’Europa non può dunque pretendersi del tutto immune dal contagio, così come gli Stati Uniti in cui piccoli ma agguerriti gruppuscoli non nascondono le proprie antipatie verso vari tipi di “infedeli”.
Ma sono soprattutto i rigurgiti di antisemitismo e di islamofobia, in rapido aumento, che non dovrebbero lasciarci tranquilli. La pace, anche religiosa, è una condizione che va preservata e alimentata, non si può credere di averla raggiunta una volta per tutte. Del resto dal Medio Oriente all’Ucraina, dal Pakistan all’India e fin nelle Filippine nella zona di Mindanao – per limitaci ai casi maggiori – motivi o pretesti identitari, quando non esplicitamente sbandierati, restano comunque sullo sfondo alimentando ombre di un oscuro passato che mettono a rischio la convivenza di interi popoli e contagiano, anche attraverso i migranti meno integrati, tutti i territori circostanti.
Le principali agenzie educative quali la famiglia, la scuola e la comunità religiosa d’appartenenza sono prive degli strumenti necessari a far fronte a una simile sfida. E duole constatare come alcuni politici non esitino a strumentalizzare anche questioni minori per diffondere timori e raccogliere consensi. Un sano senso civico per tutti e la fede di appartenenza per i credenti non dovrebbero rimanere soltanto premesse in forza delle quali dissociarsi e condannare simili blasfeme atrocità, ma tornare a costituire la pietra angolare su cui fondare una società aperta, fiduciosa in se stessa e perciò lungimirante.