In queste ore in cui tanto si parla di islam e conversione per la vicenda di Silvia Romano ci sembra urgente riproporre alcune parole di Annalena Tonelli, che proprio in Somalia nel 2003 ha donato la sua vita, vittima della violenza dei fondamentalisti. Con questi stessi occhi crediamo che dal Cielo oggi guardi alla Somalia, alle nuove sofferenze patite da tanti musulmani somali per mano degli al Shabaab e anche a Silvia/Aisha tornata a casa sua
Di fronte a parole come «conversione» in una vicenda delicatissima come il sequestro di Silvia Romano sentiamo una profonda tristezza di fronte a troppe banalizzazioni che circolano nei commenti di queste ore. Per questo vorremmo suggerire a tutti qualche parola un po’ più alta. E ce la facciamo prestare da chi proprio in quella stessa Somalia ha vissuto per tanti anni, fianco a fianco con tanti amici musulmani e anche per loro ha donato la sua vita: così nella sua celebre (e per lei tanto schiva eccezionalissima) testimonianza tenuta in Vaticano il 1 dicembre 2001 Annalena Tonelli (1943-2003) parlava del suo rapporto con i musulmani che le chiedevano di convertirsi all’islam.
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Per cinque anni ci avevano sbattuto in faccia che noi non saremmo mai andate in Paradiso, perché non dicevamo: «Non c’è Dio all’infuori di Dio e Muhamad è il suo profeta».
Poi successe un episodio grave, che mise a rischio la nostra vita, e allora la gente cominciò a dire che sicuramente anche noi saremmo andate in Paradiso. E cominciammo a essere portate come esempio. Il primo fu un vecchio capo che ci voleva molto bene: «Noi musulmani abbiamo la fede» – ci disse un giorno – «e voi avete l’amore». Fu il tempo del grande disgelo. La gente diceva sempre più frequentemente che loro avrebbero dovuto fare come noi, che loro avrebbero dovuto imparare da noi a Care (prenderci cura ndr) per gli altri, in particolare per quelli più malati, più abbandonati.
Diciassette anni dopo, subito dopo il massacro di Wagalla, un vecchio arabo mi fermò al centro di una delle strade principali del povero villaggio: profondamente commosso perché in mezzo ai morti c’erano suoi amici, perché mi aveva visto quando mi avevano picchiato perché sorpresa a seppellire i morti, perché lui aveva avuto paura e non aveva fatto nulla per salvare i suoi, mentre io avevo tutto osato e rischiato per salvare la vita dei «loro» che erano diventati miei, gridò per essere sentito da tutti: «Nel nome di Allah, io ti dico che, se noi seguiremo le tue orme, noi andremo in Paradiso».
A Borama, dove vivo oggi, la gente prega intensamente perché io mi converta alla fede musulmana. Anche negli altri luoghi dove sono stata la gente a un certo punto cominciava a pregare per la mia conversione alla fede musulmana. Me ne parlano spesso, ma con delicatezza, e aggiungono sempre che, comunque, Dio sa e io andrò in Paradiso anche se rimarrò cristiana. Non vogliono che io mi senta ferita. E poi cercano di farmi sentire “assimilata” a loro, vicinissima. Mi raccontano ogni hadith in cui il profeta Muhamad, sulle orme di Issa, Gesù, mangiava con i lebbrosi nello stesso piatto, aveva compassione dei poveri, mostrava amore per i piccoli.
Sono tornata in Italia per un mese a giugno di quest’anno. Mancavo da molti anni. Per la mia gente laggiù è stato un evento: molti hanno temuto che qualcuno o qualcosa mi avrebbero impedito di tornare. Grande è stata la gioia di rivedermi. E lo sheekh più amato, uno sheekh che è stato e continua ad essere l’insegnante di Corano per tutti gli altri sheekh della zona, è subito venuto nel mio ufficio e mi ha detto che, quando ero a Roma – per loro c’è quasi solo Roma in Italia – loro erano felici e condividevano nel pensiero e nella preghiera il mio pellegrinaggio, perché di autentico pellegrinaggio si trattava. Loro – continuava a ripetermi sheekh Abdirahman, giustamente orgoglioso della sua conoscenza – sanno che a Roma sono sepolti alcuni dei discepoli di Issa, Gesù, il loro grande profeta. E visitare i luoghi del loro martirio è uno dei pellegrinaggi che ogni musulmano vorrebbe fare nel corso della sua vita, tanto che loro sentivano di avermi mandato in pellegrinaggio e mi attendevano perché raccontassi e condividessi. In senso molto più lato, il dialogo con le altre religioni è questo. È condivisione. Non c’è bisogno di parole. Il dialogo è vita vissuta; e meglio (almeno io lo vivo così) se è senza parole. (…)
Ai somali molto ho dato. Dai somali molto ho ricevuto. Il valore più grande che loro mi hanno donato, valore che ancora io non sono capace di vivere, è quello della famiglia allargata, per cui, almeno all’interno del clan, TUTTO viene condiviso. La porta è sempre spalancata ad accogliere fino al più lontano membro del clan. La mensa è sempre condivisa. Quello che è stato preparato per dieci, sarà condiviso con la massima naturalezza con chiunque si presenterà alla porta. Non ci sono e non ci saranno recriminazioni, lamenti, vittimismi. È la cosa più naturale del mondo condividere con i fratelli. Nel mio mondo, a Borama, la piaga è la disoccupazione. Molta gente non ha mai lavorato nella sua vita perché non ha mai trovato un lavoro. Ed è così che quel “solo” che lavora si trova “costretto” a condividere con venti, trenta altri che non lavorano, il frutto della sua fatica. Ma lui non lo vive come una “costrizione”, lo vive con naturalezza. Laggiù condividere fa parte dell’esistenza.
E poi quella loro preghiera cinque volte al giorno… l’interrompere qualsiasi cosa si stia facendo, anche la più importante, per dare tempo e spazio a Dio. Da quando sono con loro, sono trent’anni che io mi struggo perché anche nel nostro mondo noi fermiamo i lavori, ci alziamo se dormiamo, interrompiamo qualsiasi discorso per fare silenzio e ricordarci di Dio, meglio se assieme ad altri, per riconoscere che da Dio veniamo, in Dio viviamo, a Dio ritorniamo.
Ma il dono più straordinario, il dono per cui io ringrazierò Dio e loro in eterno e per sempre, è il dono dei miei nomadi del deserto. Musulmani, loro mi hanno insegnato la Fede, l’abbandono incondizionato, la resa a Dio, una resa che non ha nulla di fatalistico, una resa rocciosa e arroccata in Dio, una resa che è Fiducia e Amore. I miei nomadi del deserto mi hanno insegnato a tutto fare, tutto incominciare, tutto operare nel nome di Dio. «BISMILLAHI RAHMANI RAHIM»… Nel nome di DIO Onnipotente e Misericordioso. Ci si alza nel nome di Dio, ci si lava, si pulisce la casa, si lavora, si mangia, si lavora ancora, si studia, si parla, si fanno le mille cose di ogni giornata, e finalmente ci si addormenta: TUTTO nel nome di Dio. La consuetudine del nome di Dio ripetuto incessantemente, che già aveva sconvolto e affascinato la mia vita con i racconti del pellegrino russo prima della mia partenza, ha trasformato la mia vita permanentemente. Rendo GRAZIE ai miei nomadi del deserto che me lo hanno insegnato.
Poi la vita mi ha insegnato che la mia fede senza l’Amore è inutile, che la mia religione cristiana non ha tanti e poi tanti comandamenti, ma ne ha uno solo; che non serve costruire cattedrali o moschee, né cerimonie né pellegrinaggi, che quell’Eucaristia che scandalizza gli atei e le altre fedi racchiude un messaggio rivoluzionario: «Questo è il mio corpo, fatto pane perché anche tu ti faccia pane sulla mensa degli uomini, perché, se tu non ti fai pane, non mangi un pane che ti salva, ma mangi la tua condanna».
L’Eucaristia ci dice che la nostra religione è inutile senza il sacramento della misericordia, che è nella misericordia che il cielo incontra la terra. Se non amo, Dio muore sulla terra. Che Dio sia Dio io ne sono causa, dice Silesio; se non amo, Dio rimane senza epifania, perché siamo noi il segno visibile della Sua presenza e lo rendiamo vivo in questo inferno di mondo dove pare che Lui non ci sia, e lo rendiamo vivo ogni volta che ci fermiamo presso un uomo ferito.