Gli schiavi  della Mauritania

Gli schiavi della Mauritania

Fenomeno arcaico e feudale, la schiavitù è ancora una piaga diffusa in Mauritania, nonostante nuove leggi e l’impegno dei militanti abolizionisti. Come Biram Dah Abeid

 

Il fenomeno della schiavitù in Mauritania non ha nulla a che vedere con la tratta di esseri umani, l’industria del sesso, la globalizzazione e le nuove forme di sfruttamento che si sono diffuse negli ultimi decenni. Rimanda, invece, a un passato arcaico e feudale, e in questo Paese africano sopravvive grazie anche a una legittimazione religiosa, fornita dall’interpretazione locale dell’Islam. Nella maggior parte dei casi, gli sfruttatori sono arabo-berberi e gli sfruttati, gli haratin (ufficialmente ex schiavi, la schiavitù è stata abolita per legge dal 1981 ma continua a esistere), sono neri. Biram Dah Abeid, fondatore dell’Iniziativa per la rinascita del movimento abolizionista in Mauritania (Ira Mauritanie) e candidato alle elezioni presidenziali del 2019, è in prima linea nella lotta contro la schiavitù. Biram non invita alla ribellione violenta e usa solo mezzi pacifici. Come il Mahatma Gandhi, la sua unica arma sono le parole. Di seguito, un estratto del libro Mai più schiavi. Biram Dah Abeid e la lotta pacifica per i diritti umani (Ed. Paoline).

Il modo migliore per capire cosa accade in Mauritania è partire da alcune storie concrete.

Nel 2008, quando il movimento Ira Mauritanie era appena sorto, Biram Dah Abeid riceve una richiesta di aiuto da un villaggio di haratin, che da decenni abitavano in condizioni precarie al riparo di tende, perché non venivano rilasciati loro i permessi per costruire case. Poi, un giorno, era comparso all’orizzonte un arabo-berbero che aveva ottenuto dal prefetto quasi per magia la proprietà di tutte le terre del villaggio e con l’appoggio dei gendarmi pretendeva che gli haratin se ne andassero. Un episodio di ordinaria ingiustizia, fronteggiato da Biram e dagli altri militanti con una resistenza pacifica.

In quell’occasione, il leader di Ira Mauritanie fa la conoscenza di un tale Bilal Rabah, un hartani (singolare di haratin) che era stato schiavo fino a tre anni prima.

«Ho dovuto abbandonare Habi, mia sorella trentenne: è la schiava di un arabo-berbero, che la fa lavorare duramente, la picchia, non le dà abbastanza cibo e la violenta – racconta Bilal -. Ha avuto due bambini da lui. Uno è handicappato, ma nessuno se ne prende cura. E quando mia sorella cerca di dedicargli un po’ di attenzione, il padrone la malmena e le urla di andare a lavorare. A quell’uomo del bambino non importa nulla… Aiutatemi a liberarla, vi prego».

Biram lo accompagna dal prefetto e nel villaggio dove risiedeva la ragazza.

«Spesso succede che quando si viene a sapere del nostro intervento, il padrone si reca in via preventiva dai gendarmi, e chiede loro di spaventare lo schiavo, minacciandolo con future punizioni se parlerà dicendo la verità – racconta Biram Dah Abeid -. Anche la sorella di Bilal era stata intimidita. Così, quando siamo andati a cercarla, accompagnati dalle forze dell’ordine, ha iniziato a piangere e a mentire dicendo che si trovava lì di sua volontà, che era libera e contenta della sua condizione… Alla fine è venuta via con noi, assieme ai suoi bambini, e solo quando si è sentita al sicuro ci ha raccontato degli stupri e delle punizioni corporali che subiva, ma anche delle minacce dei gendarmi».

In seguito, Habi Rabah è andata a vivere a Nouakchott, è riuscita a comprare una casa, ha un lavoro retribuito e si è sposata.

«È una ragazza coraggiosa, ed è diventata una grande sostenitrice di Ira Mauritanie. Partecipa alle manifestazioni e non si tira indietro se la polizia attacca, tant’è che è stata anche ferita. Non era mai stata a scuola, ma da adulta ha iniziato a studiare».

Non è previsto, infatti, che i bambini nati schiavi vadano a scuola.

«C’è solo qualche rara eccezione. Per esempio, mi è stato raccontato di una madre schiava che ha supplicato il padrone di far studiare suo figlio: in cambio lei avrebbe lavorato per due».

Che il padrone accetti, sta al suo buon cuore. Di solito, i piccoli schiavi iniziano a lavorare all’età di cinque anni, svolgendo compiti semplici: accudire un animale, lavare i piatti, trasportare degli oggetti. Verso i sette anni, sono in grado di svolgere lavori più pesanti, come portare l’acqua, aiutare in campagna o in cucina. A questo punto, l’infanzia è ormai un ricordo lontano. A otto o nove anni, le bambine incominciano a diventare oggetto del desiderio del padrone o dei suoi figli e vengono violentate. La madre, a sua volta schiava, è impotente: non ha alcun mezzo per sottrarre la figlia al destino che l’attende. È un dolore immenso, una violenza maggiore di quella che lei stessa ha subito.

In una società patriarcale come quella mauritana, curiosamente a determinare la condizione di libero o schiavo è la madre. Se quest’ultima è schiava, anche i suoi figli lo saranno, indipendentemente se siano figli del padrone o di un nero libero. La logica è quella che si applica agli animali: la cucciolata è della madre, e quindi di chi è proprietario della donna.

«Il mio ventre appartiene al mio padrone!». È la frase pronunciata da una schiava mauritana, Aichanna Mint Abied Boilil, innanzi a un allibito Samuel Cotton, un giornalista afroamericano che nel 1995 si è recato in Mauritania per indagare sulla schiavitù. La donna era fuggita dal suo aguzzino, un pastore e agricoltore arabo-berbero, con due dei suoi cinque figli, avuti da due uomini diversi – due schiavi come lei – con i quali ha dovuto unirsi semplicemente per procreare nuovi schiavi. Aichanna racconta di una pratica molto diffusa fra i proprietari di schiavi: la “cessione” di una persona a un altro membro della famiglia o ad amici, in affitto o in regalo. La seconda figlia di Aichanna era stata donata come serva a una delle figlie del padrone in occasione delle sue nozze. Un’altra era finita a servire la suocera del padrone.

Aichanna era fuggita, ma non si aspettava che il padrone rendesse liberi i due figli che si era portata con sé. Per lei, nata e cresciuta con una mentalità da schiava, era ovvio che le sue creature appartenessero al padrone. Che ci fosse dal 1981 una legge che aveva abolito la schiavitù nel Paese, in concreto non faceva alcuna differenza. Le regole sociali non scritte sono quelle della mentalità schiavista, che impregna la società mauritana.

“MAI PIÙ SCHIAVI” AL CENTRO PIME DI MILANO

Il libro di Maria Tatsos “Mai più schiavi. Biram Dah Abeid e la lotta pacifica per i diritti umani” sarà presentato presso la biblioteca del Centro Pime di Milano, mercoledì 16 maggio, ore 18.30. Un’occasione per conoscere dalla viva voce dell’autrice il dramma della schiavitù in Mauritania, ma anche la strenua resistenza di chi non rinuncia a lottare pacificamente contro la privazione dei diritti umani più basilari di migliaia di persone.