Le imponenti manifestazioni di piazza e la presa di posizione del capo di Stato maggiore hanno messo fuori gioco il presidente Bouteflika. Ma sul futuro del Paese restano ancora moltissime incognite.
Algeria volta pagina? Pare proprio di sì. O almeno ci prova. Le dimissioni, lo scorso 2 aprile, del presidente Abdelaziz Bouteflika – 82 anni, vecchio, malato e praticamente “invisibile”- sono certamente un segnale forte, una crepa in un sistema che sembrava arroccato graniticamente su se stesso. Ma ancora non basta al popolo algerino che dallo scorso febbraio scende regolarmente e massicciamente nelle strade e nelle piazze di Algeri e di molte altre città del Paese per chiedere un cambiamento radicale. Non per niente le manifestazioni sono continuate anche dopo le dimissioni del presidente, a testimonianza di un risveglio popolare come non si era mai visto nel Paese, neppure durante le cosiddette “primavere arabe” che avevano sfiorato l’Algeria solo di striscio.
Primo risultato, significativo ma insoddisfacente, era stato il ritiro della candidatura di Bouteflika che aspirava a un quinto mandato, dopo vent’anni al potere. Annunciato lo scorso 11 marzo era stato seguito dal rinvio delle elezioni previste per il 28 aprile e dall’avvio di una fase costituente in vista dell’elaborazione di una nuova Costituzione. E dunque di un nuovo voto al termine dei lavori. Il tutto gestito dal vecchio establishment e senza date precise. «Abbiamo manifestato per avere elezioni senza Bouteflika e ci ritroviamo con Bouteflika senza elezioni!», avevano protestato in molti non senza un certo senso dello humor.
Secondo risultato, la presa di posizione dell’esercito che ha sempre sostenuto il presidente e l’élite che si è consolidata al potere nel corso di questi lunghi anni. Questa volta, però, il potentissimo capo di Stato maggiore, il generale Ahmed Gaïd Salah, ha scompigliato ulteriormente le carte, lo scorso 26 marzo, chiedendo apertamente la deposizione di Bouteflika che «si trova – ha dichiarato pubblicamente – nella totale impossibilità di esercitare le sue funzioni a causa di una malattia grave e che dura da lungo tempo». È stato il colpo di grazia decisivo di questa fine di regno che apre molte incognite sul futuro. Parlando con la solita sottile retorica algerina di «manifestazioni che potrebbero essere sfruttate da partiti ostili e male intenzionati», il generale Gaïd Salah – attore di primo piano del panorama politico algerino sin dall’indipendenza del 1962 e capo di Stato maggiore da quasi 15 anni – ha espresso con forza la necessità di superare lo stallo. «In questo contesto – ha detto – è necessario, se non imperativo, adottare una soluzione per uscire dalla crisi, che risponda alle legittime rivendicazioni del popolo algerino e che garantisca il rispetto delle disposizioni della Costituzione e il mantenimento della sovranità dello Stato».
Si tratta davvero di una vittoria del popolo? L’inizio di un vero cambiamento? O è un tentativo estremo di non cambiare nulla, cambiando apparentemente tutto? Di fatto, le dimissioni di Bouteflika tolgono di mezzo solo la “pedina” più visibile, ma ormai anche la più debole e impresentabile del vecchio regime. Tutte le altre pedine, a cominciare dai pezzi grossi del Fronte di liberazione nazionale (Fnl) – il partito-padrone del Paese – restano saldamente sullo scacchiere. Almeno per il momento. La partita è ancora aperta.
Kamel Daoud, intellettuale algerino, autore di numerosi libri tradotti anche in Italia (l’ultimo, il “Caso Mersault”, in cui dà un’identità all’arabo ucciso dallo “Straniero” di Camus) attivissimo sui social, mostra un certo scetticismo: «Bouteflika non ha lasciato la presidenza a causa della pressione del popolo e dunque per rispetto della volontà degli algerini, ma per la pressione dell’esercito. Questo la dice lunga sulla sua visione della politica: un rapporto di forze, non il rispetto delle leggi e della democrazia. È il sunto finale del suo disprezzo per tutti noi. Ci lascia con il lupo nell’ovile. L’ultimo dei suoi regali avvelenati».
Eppure Bouteflika aveva cercato di uscire di scena con parole rassicuranti, addirittura di scuse: «Lasciando le mie funzioni, non posso concludere il mio percorso presidenziale senza indirizzarvi un messaggio, senza chiedere perdono a coloro, tra i figli della mia patria, nei confronti dei quali avrei, senza volerlo, mancato al mio dovere nonostante il mio profondo attaccamento al servizio di tutti gli algerini e algerine, senza distinzioni né esclusioni». E ha aggiunto: «Vi esorto a restare uniti, a non dividervi mai e a essere all’altezza della responsabilità di preservare il messaggio dei nostri valenti martiri».
Quanto ancora questa retorica stantia ha presa sul popolo algerino? Un popolo composto in gran parte da giovani, che non hanno vissuto le lotte per l’indipendenza e che erano ancora bambini durante gli anni Novanta, quelli del terrorismo islamista. E che dunque sono più proiettati verso il futuro che ripiegati sul passato. Anche per questo, le dimissioni di Bouteflika non hanno spento la piazza. Imponenti manifestazioni sono continuate anche all’indomani dell’annuncio della sua uscita di scena. Anche perché gli algerini sanno bene che, quando c’è di mezzo l’esercito – e c’è quasi sempre quando si tratta di questioni cruciali – occorre stare molto all’erta.
«La mobilitazionedei cittadini prosegue – testimonia da Algeri il reporter algerino Morad Djabari -. Donne, bambini, famiglie intere, persone anziane sono in strada per chiedere lo smantellamento di tutto il sistema». La posta in gioco si alza. Anche perché molti algerini ritengono che non bastino le dimissioni di Bouteflika – che di fatto non governa dal 2013, quando è stato colpito da un ictus -, ma occorra smantellare i centri di potere che in questi anni l’hanno sostenuto e ne sono stati, a loro volta, sostenuti. Nelle scorse settimane molti fedelissimi si sono fatti più discreti dopo la presa di posizione di Gaïd Salah, ma non si sono di certo fatti da parte.
Un cambiamento radicale significa mettere in discussione l’Fnl, ma non solo. Significa smantellare il sistema dei wali, i prefetti, con il loro enorme potere, ma anche quello religioso delle zaouia, le confraternite, nonché mettere un freno ai nuovi estremisti, che non vestono più gli abiti dei barbuti degli anni Novanta, ma più subdolamente hanno conquistato fette di potere nei luoghi che contano.
«Quando parliamo di rischio islamista – mette in guardia Daoud – non si tratta più di islamisti antiquati, come quelli del Fronte islamico di salvezza, il Fis. Questa è una nuova generazione. Più maligna. Più paziente. Più stratega nel gioco dell’attesa e nell’arte del riciclarsi. È una generazione che ha media, reti internazionali, idee. È una generazione che ha beneficiato dei fallimenti in altri Paesi. La rivoluzione in Algeria sfugge a questi neo-islamisti. Non hanno visto la rivolta venire e non l’hanno fatta propria. Oggi si stanno organizzando. Vogliono controllare, ma esitano. L’Algeria sarà una Repubblica. Né una monarchia. Né un califfato».
Con queste incognite e con un sistema ancora ben arroccato al potere, è difficile immaginare il futuro dell’Algeria che dipenderà moltissimo anche da chi controlla le sue enormi ricchezze soprattutto in termini di idrocarburi. Questo Paese poverissimo, dove la gente spesso è costretta a contare sui sussidi per poter andare avanti, ha moltissimo petrolio e gas. Un comparto che ci interessa molto da vicino. L’Italia, infatti, è il primo partner commerciale dell’Algeria con un interscambio di circa 9 miliardi di dollari e 180 aziende che operano nel Paese in vari settori.
Quello che succede dall’altra parte del Mediterraneo, dunque, ci interessa molto da vicino, anche se sul fronte dell’opinione pubblica italiana c’è una scarsissima conoscenza del Paese e sul fronte algerino c’è una ferrea chiusura nei confronti di tutti coloro che non hanno a che fare con il business. Una nuova Algeria ha bisogno anche di questo tipo di apertura per avere finalmente un po’ di ossigeno.