Quale “peso” ha l’Africa nelle politiche europee? È solo un problema di business e migranti? O è possibile una diversa collaborazione? Il punto di vista di un missionario africano alla vigilia delle elezioni.
Il Network è stato creato nel 1988 sulla scia di un’analoga iniziativa nata a Washington qualche anno prima per dare voce alle istanze dell’Africa in sede di governo statunitense. Attualmente la rete europea raggruppa una cinquantina di istituti missionari e congregazioni religiose, con 12 “antenne” in Belgio, Francia, Germania, Irlanda, Malta, Paesi Bassi, Polonia, Portogallo, Svizzera, Gran Bretagna e anche Italia.
Padre Onyejiuwa, perché questo Network e quali sono i principali obiettivi?
«Aefjn è in un certo senso un’organizzazione “figlia” dei missionari che hanno lavorato in Africa per molti anni e che hanno mantenuto stretti legami con la gente del posto. La loro fede cristiana li ha portati a un profondo rispetto per ogni essere umano e al desiderio di sostenere le persone che non godono ancora della giusta parte delle risorse delle loro terre. Per questo, una volta tornati nei Paesi di origine, alcuni missionari o religiosi – sia uomini che donne – hanno deciso di impegnarsi anche per affrontare qui in Europa alcune delle questioni cruciali che hanno vissuto lavorando sul campo. Molti di loro, ad esempio, hanno investito molte energie in Africa per programmi di sviluppo e di promozione umana, ma qualcosa non ha funzionato: tanti sforzi, ad esempio, per alleviare la povertà sembrano ancora oggi non produrre risultati significativi. Perché? Si sono resi conto che c’era innanzitutto un problema di sistema».
In che senso?
«Una delle ragioni sta nel modo in cui si sono strutturate le relazioni economiche tra Europa e Africa. Che sono, ancora oggi, incentrate sostanzialmente su due aspetti: sfruttamento delle risorse naturali africane e vendita di prodotti finiti europei. È un sistema creato all’epoca coloniale che ora non viene più imposto con la forza, ma con un sistema economico iniquo e ugualmente vincolante. Che va cambiato alla radice».
Perché i missionari dovrebbero farsi carico di questa sfida?
«Già Giovanni Paolo II aveva chiesto ai missionari di essere presenti anche nei luoghi in cui si fanno le politiche e si prendono le decisioni, con analisi e azioni di lobbying. E anche di individuare nuove vie per la comunicazione. È quello che sta cercando di fare Aefjn, dando attenzione a queste istanze».
Attorno a cosa si articola il piano di azione 2019-2022 di Aefjn?
«Lavorando in rete con le nostre comunità cristiane e con altri gruppi della società civile a livello nazionale e internazionale ci sforziamo di promuovere una cultura in cui le persone, e specialmente i più poveri, siano al cuore delle politiche economiche e sociali. Gli ambiti principali riguardano il commercio, il tema della giustizia specialmente in campo economico e sociale, la sovranità alimentare e la salute. Ci sforziamo di promuovere la causa di un mondo più rispettoso, solidale e giusto».
Africa e Unione Europea stanno negoziando il nuovo accordo di partnership UE-ACP (Africa, Caraibi, Pacifico, conosciuto anche come accordo di Cotonou) che scade nel 2020. Quello precedente era stato fortemente criticato perché ritenuto iniquio. Qual è la vostra posizione rispetto a queste nuove negoziazioni?
«Ci sono molte cose che devono essere cambiate. Di base, resta una visione coloniale per cui l’Africa continua a essere vista come un bacino da cui attingere risorse naturali. L’approccio è quello del business, non dei principi etici. E non tiene conto di temi importanti come l’ambiente, il lavoro, i diritti umani. Soprattutto è un accordo che non viene negoziato tra partnerrealmente alla pari. L’UE ha una “memoria” istituzionale. L’Africa non ce l’ha: non c’è integrazione, non ci sono istituzioni democratiche ed economiche. Questa “bugia” dei partner alla pari condiziona tutte le negoziazioni. Di conseguenza, molti degli errori che esse contengono derivano da questo vizio d’origine».
Dunque, quale sarebbe il vostro auspicio?
«Che, anche all’interno di queste negoziazioni, si tenga realmente e concretamente conto degli Obiettivi dello sviluppo sostenibile indicati dalle Nazioni Unite anche attraverso una coerenza nelle politiche economiche e commerciali. L’atteggiamento dell’Europa da un punto di vista del regime fiscale, ad esempio, continua a essere estremamente aggressivo e molto svantaggioso per l’Africa. Altri temi passano decisamente in secondo piano».
Quali ad esempio?
«La povertà che continua a interessare vastissime regioni dell’Africa e che sta addirittura peggiorando in alcuni contesti a causa dei cambiamenti climatici. Questo è un tema cruciale. L’Africa subsahariana ne è molto colpita con gravi conseguenze anche sulla produzione di cibo e, di conseguenza, sulla sicurezza alimentare. Se penso al mio Paese, la Nigeria, e al moltiplicarsi di conflitti tra popolazioni dedite alla pastorizia e agricoltori, posso dire con certezza che non si tratta di conflitti religiosi, ma economici. Sono legati all’accesso all’acqua e ai pascoli. I pastori si stanno muovendo sempre più verso Sud a causa della siccità e della desertificazione che avanza e questo sta creando molte aree di crisi in diverse nazioni africane. Queste questioni – cambiamento climatico, povertà, conflitti… – sono interconnesse. Bisogna tenerne conto anche nelle politiche europee rivolte all’Africa».
L’Europa, tuttavia, non è più l’unico partner del continente, anzi. La Cina ha aumentato enormemente la sua influenza. Questo sta indebolendo il ruolo dell’UE?
«La Cina ormai è il principale partner dell’Africa. Ma non è l’unico. Tutti i Paesi del cosiddetto Bric’s Group (Brasile, Russia, India e Cina) stanno prendendo piede nel continente. Quello che è tragico è che tutti operano con bassissimi standard etici, peggio dell’Unione Europea. Che, anche per questo, dovrebbe fare di più, non di meno. È il “vicino” naturale dell’Africa e anche per questa ragione deve prendere posizioni forti per contribuire al suo sviluppo con politiche che producano un reale progresso umano e ambientale. E non viceversa».
L’Unione Europea è ancora oggi uno dei principali finanziatori della cooperazione verso l’Africa. Pensa che questo genere di aiuti contribuisca allo sviluppo del continente o, al contrario, fa sì che si continui a mantenerlo in una condizione di sottomissione e dipendenza?
«Gli aiuti sono fondamentali nelle emergenze. Altrimenti rischiano di essere solo uno strumento di controllo e manipolazione. Noi vogliamo giuste relazioni economiche, non aiuti».
Come è cambiato lo sguardo degli africani nei confronti dell’Europa?
«L’Europa per molti versi continua a rappresentare un modello. Gli africani hanno ottenuto l’indipendenza dei loro Paesi, ma ancora oggi non hanno istituzioni democratiche. Le elezioni spesso sono segnate da violenze o non sono credibili. Non sono migliorati gli standard dei diritti umani. Sono tutte grandi sfide per l’Africa, rispetto alle quali l’Europa rappresenta ancora un punto di riferimento».
Pensa che la Chiesa in Africa possa o debba fare di più per promuovere giustizia, pace, uguaglianza e sviluppo sostenibile?
«Assolutamente sì. La Chiesa potrebbe fare molto di più. Ma spesso non usa il suo “potere” e la sua influenza nel promuovere il cambiamento. Certo, ci sono degli esempi positivi: in Repubblica Democratica del Congo, ad esempio, ha contribuito grandemente al cambiamento democratico. Altrove, c’è molta resistenza. Certo, ci sono sistemi difficili da cambiare. Ma la Chiesa è una voce autorevole; dovrebbe farsi sentire di più. A volte, mi sembra che si chiuda nel suo mondo, separato dalla realtà. Forse perché si sente più “sicura”. Dovrebbe collaborare di più con la società civile e altri movimenti, e soprattutto rispondere al grido e alle istanze della Laudato Si’ che dovrebbero diventare un imperativo per la Chiesa d’Africa se vuole rimanere credibile tra la gente».
E nelle relazioni tra le Chiese – quelle d’Europa e quelle d’Africa – che tipo di partnership auspicherebbe?
«Mi sembra che la Chiesa in Europa si stia muovendo verso un maggior coinvolgimento e impegno per portare le proprie istanze nelle istituzioni democratiche. In Africa si mantiene ancora soprattutto al livello del culto e non si confronta con la vita reale della gente. Dopodiché, penso che nelle relazioni tra le Chiese si debba andare oltre la solidarietà. La Chiesa africana, ad esempio, può essere supportata anche per diventare essa stessa un soggetto che si confronta con le istituzioni dei diversi Paesi e anche con quelle internazionali».
Per concludere, una delle sfide principali – e uno dei temi più importanti della propaganda politica in vista delle elezioni europee – è ovviamente il flusso migratorio dall’Africa. Che cosa ne pensa? Come affrontare questo fenomeno da entrambe le parti?
«È molto complesso. Ci sono innanzitutto fattori che, all’origine, spingono la gente a partire e che si radicano in gran parte nella povertà creata in Africa, nei conflitti diffusi in molti contesti, nell’accaparramento delle risorse naturali e della terra. Per questo, per molti giovani, la vita oltre il Mediterraneo non può che apparire meravigliosa. Occorre dunque rendere innazitutto dignitosa la vita in Africa. Altrimenti la gente continuerà a correre il rischio di partire. Molti pensano che sia più dignitoso provare ad andarsene che restare. Occorre agire innanzitutto su questi fattori, “correggendo”, ad esempio, gli atteggiamenti sbagliati del passato e guardando in faccia le grandi responsabilità che ha avuto l’Europa, per non commettere gli stessi errori. Un esempio, come dicevamo, è la negoziazione dei nuovi accordi UE-ACP che dovrebbero assolutamente essere più equi per tutti. Dopodiché dovrebbe cambiare anche il linguaggio. La questione dei migranti africani è spesso legata a discorsi di odio, che alimentano la propaganda, ma che non aiutano a capire e ad affrontare il problema».