La Settimana della Mondialità promossa dall’Associazione “A Gonfie Vele” compie dieci anni, durante i quali un migliaio di giovani di Paesi diversi hanno imparato a incontrarsi e conoscersi
«Quando una giovane palestinese ha incontrato al checkpoint di Betlemme la soldatessa israeliana che altri non era se non l’amica con cui aveva vissuto la Settimana della Mondialità in Italia, il loro grande abbraccio ci ha ripagato di tutte le fatiche e di tutto l’impegno che avevamo messo nell’organizzarla».
Giuliana Rapacioli, anima dell’associazione culturale “A Gonfie Vele” di Pontenure in provincia di Piacenza, ne avrebbe moltissimi di aneddoti come questo da raccontare. Anche perché la Settimana della Mondialità – o “Week of the World” (Wow) – è giunta quest’anno alla sua decima edizione. E si terrà nella casa del Pime di Sotto il Monte (Bg) dal 22 al 28 luglio, dopo aver toccato varie località italiane e aver fatto tappa in Israele nel 2015. Si tratta di un’esperienza che – nata in collaborazione con i missionari del Pime e con l’Ufficio Educazione alla Mondialità del Centro di Milano – è cresciuta moltissimo e, soprattutto, ha coinvolto moltissimi giovani di tutto il mondo, con un sforzo organizzativo non indifferente, ripagato da frutti di amicizia, condivisione, apertura dello sguardo al mondo e superamento delle proprie paure. «All’origine – ricorda padre Piero Masolo, che è tra gli ideatori – c’era il progetto di proporre un’occasione di convivenza a ragazzi tra i 15 e i 19 anni di Paesi, culture e religioni differenti, per potersi conoscere e abbattere così pregiudizi e diffidenze e per imparare gli uni dagli altri, creando legami e anche amicizie vere e proprie.
Tollerare l’altro non basta; anche il semplice rispetto, seppur sacrosanto, ci sta stretto. Ma il dialogo di vita, semplice e concreto, apre piste inattese, imprevedibili e affascinanti. Fa crescere i giovani e li aiuta a diventare persone mature e aperte, dagli occhi limpidi e il sorriso autentico». In questi dieci anni sono passati dalla Settimana della Mondialità un migliaio di ragazzi provenienti – oltre che dall’Italia – da Israele, Palestina, Uganda, Algeria, Egitto, Brasile, Giappone, Polonia, Macedonia, Messico, Bosnia, Haiti, Romania, Moldavia, Giordania, Madagascar, Tanzania, Guinea Bissau e Zimbabwe. Ora padre Piero si trova in Algeria, e anche da lì ha continuato a “partecipare” alla Settimana della Mondialità, inviando gruppi compositi di giovani algerini e subsahariani che, al loro ritorno, si sono messi a loro volta in gioco: «Alcuni – racconta padre Piero – hanno realizzato uno spettacolo teatrale che promuove il rispetto della donna e la libertà religiosa; altri hanno iniziato un gruppo di preghiera; altri ancora stanno collaborando come educatori con il progetto El Jisr (“Ponte”, in arabo), che promuove percorsi interculturali ad Algeri… Insomma, tanti frutti sono nati e continueranno a nascere qui e altrove». Qual è il segreto? Un intenso lavoro professionale in campo educativo, molta passione e tanta creatività.
Ogni edizione è caratterizzata da un tema, che fa da filo conduttore a tutte le attività, dai laboratori ai momenti formativi, dalle attività ludiche alle visite sul territorio. Quest’anno, sarà legato alla storia di Peter Pan: “Neverland. Alla ricerca della tua isola che non c’è”. «Ci avvarremo – spiega Giuliana Rapacioli – dell’itinerario narrativo- argomentativo proposto da Alessandro D’Avenia nel suo volume “L’arte di essere fragili” e sarà proprio la fragilità il tema conduttore della settimana. La fragilità non come qualcosa che dequalifica l’umano e lo fa sentire minus, ma come quella forza ed energia che consentono di creare un contatto con la realtà, vero, sincero e autentico». Scrive D’Avenia: «L’arte da imparare in questa vita non è quella di essere invincibili e perfetti, ma quella di saper essere così come si è: invincibilmente fragili e imperfetti». È un’esperienza che specialmente chi ha vissuto in zone di conflitto ha provato direttamente sulla sua pelle. Come Nadeen, palestinese, che ha saputo trarre dalla Settimana della Mondialità una grande lezione di vita. «Eravamo in molti – ricorda -, provenienti da contesti diversi e con visioni e religioni diverse. L’unica cosa in comune era la volontà di aprire i nostri cuori e di ascoltare le storie di tutti. Abbiamo fatto tesoro del tempo passato insieme. Non avrei mai immaginato di poter conoscere delle persone in una sola settimana e di amarle così tanto».
«Se un istraelianoe un palestinese possono sedersi vicini e parlare di pace – si interroga Ogwetta, che viene dall’Uganda – perché anche noi non possiamo cominciare a immaginare un meraviglioso domani?». È così che alcuni giovani del Nord Uganda, una volta tornati a casa, hanno provato a rileggere la loro storia e hanno fondato un’associazione con lo scopo di incontrarsi tra giovani di diverse tribù in conflitto; in questo modo hanno sperimentato la fatica, ma anche la gioia profonda di costruire relazioni anziché divisioni. Alcuni ragazzi italiani, invece, sono andati a trovare i loro nuovi amici sull’altra sponda del Mediterraneo, dove sono stati accolti come se fossero di casa. «In questi dieci anni – conclude Giuliana Rapacioli – abbiamo potuto vedere concretamente come il fatto di incontrarsi e di conoscersi aiuti le persone a stimarsi reciprocamente nel rispetto delle differenze e a superare le paure. I ragazzi si sono messi in gioco davvero: hanno discusso, giocato, riso e pianto. Hanno scoperto che l’altro può essere interessante e arricchente. E può anche diventare un amico. O, meglio ancora, quello che si considerava un nemico può essere visto come un fratello o una sorella».