Il nostro ricordo di padre Nello Ruffaldi, missionario del Pime nell’Amazzonia brasiliana, scomparso qualche settimana fa dopo quasi 50 anni vissuti accanto alle popolazioni native a Oiapoque.
Ci aveva accompagnato tante volte con i suoi racconti dall’Amazzonia sulle pagine di questa rivista. E proprio facendoci aiutare da lui l’anno scorso avevamo cominciato il cammino che ci sta portando al Sinodo indetto da Papa Francesco per il prossimo mese di ottobre. Lo vedrà però solo dal Cielo padre Nello Ruffaldi, missionario del Pime scomparso lo scorso 28 marzo a Belém. Una morte che la Chiesa brasiliana e le comunità indigene per le quali ha speso praticamente tutta la sua vita hanno pianto in queste settimane come quando si dà l’estremo saluto a un proprio caro.
Era nato 77 anni fa a Castell’Azzara, sulle colline sopra Grosseto, padre Ruffaldi. Entrato nel Pime era diventato sacerdote nel 1967 e subito dopo l’ordinazione aveva lavorato a Sotto il Monte. In Brasile c’era arrivato nel 1971 nella diocesi di Macapá; ed era stato il vescovo Giuseppe Maritano (anche lui missionario del Pime) a inviare padre Nello ad Oiapoque, il municipio più a nord del Brasile, al confine con la Guiana Francese. In questo estremo lembo dell’Amazzonia l’incontro con le popolazioni indigene – karipuna, galibi kaliña, palikur, galibi-marworno – era diventata quella che lui amava definire come la sua «seconda vocazione».
«Incominciai a visitare gli indios, a conoscerli, ad ascoltarli, a dormire nelle loro case, a mangiare il cibo che mi offrivano – raccontava Ruffaldi -. Facevo notare le cose belle che gli antenati avevano lasciato loro come eredità: la percezione della presenza di Dio in tutti i momenti della vita, la comunione con gli animali e gli alberi, la capacità di condividere quello che avevano con gli altri, la pazienza e il rispetto nell’educazione dei figli, la vita comunitaria, il lavoro come incontro e festa. Il Vangelo e la cultura degli indios erano vicini in molti aspetti. Iniziammo promuovendo incontri, studi e assemblee: era il confronto tra vita e Vangelo».
Tutto questo avveniva negli stessi anni in cui il governo del Brasile – nei propri programmi – parlava apertamente dell’intenzione di “abolire gli indios”. Senza ucciderli: bastava semplicemente far perdere loro la propria identità.
L’impegno di padre Nello e di suor Rebecca Spires – religiosa della congregazione di Nostra Signora di Namur che fin da quegli anni ha collaborato nella pastorale indigena con Ruffaldi – andava invece in direzione opposta: «Una tappa importante – ricordava Nello – fu l’invito rivolto da un capo villaggio a suor Rebecca per imparare la loro lingua e avviare una scuola di alfabetizzazione. Fu un vero scambio: arrivammo alla lingua scritta attraverso corsi realizzati anche nel villaggio. Tutto era discusso insieme: l’alfabeto, la grammatica. La comunità scelse tra i suoi giovani alcuni maestri e maestre. Suor Rebecca li preparò e nacque la prima scuola di alfabetizzazione che in pochi anni si allargò a quasi tutti i villaggi».
Questo impegno portò presto padre Nello e suor Rebecca a partecipare al gruppo fondatore del Cimi, il Consiglio indigenista missionario della Chiesa brasiliana, che muoveva i primi passi proprio in quegli anni Settanta. E con l’impegno nel Cimi si allargò anche l’orizzonte di padre Ruffaldi: a Belém – la grande città alla foce del Rio delle Amazzoni – avrebbe poi dato vita alla “Casa dell’indio”, pensando a quei giovani che lasciavano le proprie radici nei villaggi per cercare fortuna nelle metropoli.
Con il tempo erano finalmente arrivate anche le leggi in favore delle comunità native, con la demarcazione dei territori indigeni in Brasile. Ma la sfida non era terminata: «Oggi siamo arrivati a riconoscere i diritti alle culture dei popoli indios – spiegava bene padre Nello -. Ma ancora li giudichiamo come selvaggi, retrogradi, per avere il diritto di ridurli a essere come noi, a pensare come noi, a vivere per noi consegnandoci la terra e le ricchezze. E non solo loro: anche la ricca e meravigliosa foresta è definita selvaggia, negandole il diritto a esistere. Anche la natura ci deve servire e deve essere dominata».
Andare oltre a tutto questo è quanto Ruffaldi ha cercato di fare nell’arco di tutta la vita. Consapevole che questo impegno – in una frontiera come l’Amazzonia – può voler dire anche essere chiamati al martirio. Ha visto cadere uccisi tanti amici padre Nello; tolti di mezzo proprio per le battaglie in favore della giustizia e della salvaguardia del creato. Tra loro suor Dorothy Stang – anche lei come suor Rebecca religiosa delle suore di Nostra Signora di Namur – colpita a morte nel 2005 nel Pará e divenuta un simbolo dei martiri di questa terra.
«Piccola Dorothy, dal parlare calmo e quasi sottovoce, ma con determinazione irremovibile – aveva scritto su di lei padre Nello, dopo la sua uccisione -. Eri capace di dialogare con i tuoi nemici e anche con i tuoi assassini, cercando di convincerli che la finalità della terra è dare nutrimento al popolo e non soldi ai ricchi. I tuoi assassini ti domandarono se avevi armi e tu aprendo la tua borsa mostrasti loro la Bibbia. Sono sicuro che il tuo assassinio non riuscirà a soffocare il tuo grido profetico in favore della giustizia e della pace».
Padre Nello aveva già dovuto fare i conti con una grave malattia, qualche anno fa. Ciò nonostante – a partire dal 2013 – si era gettato anima e corpo in un nuovo progetto, la “Missione nella frontiera” nella sua Oiapoque. Una nuova presenza pastorale contraddistinta da un’attenzione specifica ai più vulnerabili in un’area oggi segnata da gravi piaghe come lo sfruttamento deigarimpeiro (i cercatori d’oro), la tratta delle persone e il traffico di droga. Giovani uomini e donne spinti dal miraggio dell’Europa e indios attratti da quello dei soldi, gli uni e gli altri a rischio di finire nelle mani di sfruttatori crudeli. Alla “Missione nella frontiera” vivono oggi stabilmente tre religiose di diverse congregazioni, ma padre Nello da Belém continuava periodicamente a visitare Oiapoque e a sostenere questo lavoro. E proprio al racconto di questo mondo aveva dedicato una rubrica su Mondo e Missione nel 2017.
«Il denaro ha portato certamente vantaggi e migliorato le condizioni di vita delle famiglie – rifletteva padre Ruffaldi spiegando la situazione delle comunità indigene oggi -, ma ha pure contribuito a cambiare la mentalità. C’è meno condivisione e c’è meno lavoro in comune, mentre c’è più disponibilità di alcolici, che sono una vera sciagura. I giovani, poi, tendono a emigrare attratti dalla possibilità di fare soldi, che poi non usano necessariamente bene. Per questo con loro si cerca di riflettere: perché vuoi i soldi? Per quale scopo? Qual è la tua scelta di vita? Che cosa direbbe la tua cultura? E che cosa direbbe il Vangelo?».
Sono i temi che avrebbe voluto veder discussi nel Sinodo che tanto aspettava. Confidava nel fatto che avrebbe valorizzato anche la teologia indigena, cioè il tentativo di rileggere il Vangelo di Gesù a partire dalle categorie culturali di questi popoli. All’inizio di marzo, però, il suo grande cuore ha ceduto. Sottoposto a un delicato intervento chirurgico ha trascorso le ultime settimane a Belém con la speranza di poter tornare presto tra i suoi indios, ma anche con uno sguardo di fede sulla vita e sulla morte.
Nella prima domenica di Quaresima – subito dopo l’operazione – aveva consegnato ai suoi familiari l’ultimo messaggio per tutti gli amici in cui scriveva: «Ho visto il Signore in croce e ai suoi piedi gente che gridava e lo sfidava: “Se sei Figlio di Dio, scendi dalla croce, che Dio lo salvi così possiamo credere”. Gesù non è sceso: stava in piena comunione con il Padre, col suo amore. Lui mi disse: “Nello, tu sei in croce con me, vuoi scendere?”. Ho risposto: “Signore, voglio restare con te”. Mi sono venute in mente le parole che hanno dato senso al mio vivere e al mio morire: “Gesù è Signore a gloria di Dio Padre”. Gesù – concludeva Ruffaldi – io sarò sempre con te in croce; ma tu hai resuscitato i morti, curato i lebbrosi, dato la vista ai ciechi, accolto e trasformato i peccatori, tutto questo per la gloria di Dio. Se tu pensi che possa ancora annunciare la buona notizia, trasmettere l’amore per mio fratello, questo pure è gloria di Dio. Ma Tu puoi vedere quello che è meglio».