Originaria della regione brasiliana di Bahia, dopo aver vissuto per 8 anni a Dacca suor Marisa Pereira assiste la comunità cattolica bengalese nella capitale
Dal Brasile al Bangladesh e dal Bangladesh all’Italia: è una storia che ha a che fare con Paesi e popoli diversi quella di suor Marisa Pereira, missionaria dell’Immacolata: 47 anni e un sorriso contagioso, oggi la religiosa è responsabile della comunità cattolica bengalese a Roma.
Originaria del Brasile, dopo aver trascorso otto anni in Bangladesh, si dedica da tre al servizio dei tanti migranti bengalesi che in Italia cercano un futuro migliore per se stessi o per i loro figli.
A Roma la comunità di immigrati provenienti dal Bangladesh conta circa 38mila persone, costituendo (secondo dati Istat risalenti al 1° gennaio 2021) il 7% di tutti gli stranieri residenti nella provincia. Nonostante la maggior parte – in patria così come in Italia – sia di religione musulmana, una piccola minoranza è formata da cristiani. In Bangladesh le prime chiese a servizio dei cattolici (che inizialmente erano soprattutto discendenti dei coloni) vennero costruite nell’area dell’odierna capitale Dacca dopo l’arrivo dei mercanti portoghesi nei primi decenni del 1600. Oggi il Paese conta otto diocesi con circa 350 mila cattolici (che rappresentano il 70% dei cristiani).
«Sui miei registri – racconta suor Marisa – ho segnato circa cento persone che appartengono alla nostra comunità di bengalesi cattolici a Roma; ma sono molti di meno coloro che partecipano ai nostri incontri». Ognuno di loro, però, sa di poter contare sul sostegno della Chiesa, che li accompagna anche se lontani da casa. Così questa religiosa, forte dell’esperienza acquisita in Bangladesh, cerca di essere per loro un punto di riferimento per le attività pastorali e per le problematiche della vita quotidiana.
«Ero diventata responsabile della comunità da pochi mesi, quando è iniziata la pandemia – racconta la missionaria -. In quel momento ho conosciuto davvero il loro mondo: tanti lavoravano in nero, senza contratto, vivevano in appartamenti in subaffitto. Chi era in difficoltà si è rivolto a me e, attraverso la Caritas, abbiamo aiutato tante famiglie. Molte abitano nel quartiere di Tor Pignattara, ma anche in altre zone di Roma».
Ad oggi la comunità cattolica bengalese si ritrova a Roma una volta al mese nella parrocchia di Santa Maria Maggiore in San Vito, per la Messa in lingua con canti tradizionali. Da quando suor Marisa si occupa di bengalesi, inoltre, ha cercato di creare anche altre occasioni di incontro. Per esempio, l’animazione della Messa domenicale nella chiesa dei Santi Marcellino e Pietro, sempre una volta al mese. O le riunioni per preghiere più raccolte nelle case dei fedeli: «In Quaresima abbiamo celebrato anche la Via Crucis o la Messa a casa di diversi membri della comunità – continua suor Marisa -. Possiamo farlo grazie anche all’aiuto dei sacerdoti diocesani madrelingua bengalese che si trovano a Roma per studiare».
Ad aver offerto casa propria per la Via Crucis è stata, per esempio, una donna arrivata dal Bangladesh anni fa, completamente sola. Non parlando l’italiano, l’unico lavoro possibile per lei era stato inizialmente quello di collaboratrice domestica nelle case di altri connazionali a Roma. L’ha raggiunta la famiglia, ma ha dovuto affrontare il dolore di diventare vedova prematuramente. A distanza di tanti anni, lei e i suoi figli, ormai integrati nella società, sono ancora a Roma. Storie di questo genere sono le più comuni tra i membri della comunità, dato che i migranti vengono in Italia per cercare lavoro.
«Le donne che vengono dal Bangladesh – spiega suor Marisa – solitamente in Italia lavorano come badanti, i giovani spesso come baristi o camerieri; gli uomini più avanti con gli anni nella ristorazione. Chi non padroneggia la lingua in molti casi lavora come lavapiatti: sono soprattutto gli adulti ad avere difficoltà, mentre i giovani parlano bene l’italiano». Il disagio di trovarsi in un Paese di cui non si comprende la lingua a volte si riscontra nelle attività più semplici: «Io mi offro come aiuto e come interprete anche quando devono andare dal dottore, per esempio. Ma in ogni caso cerco di motivarli a imparare l’italiano», commenta la religiosa. «Amo stare con i bengalesi, perché a loro piace fare festa, come a noi brasiliani – scherza suor Marisa -. Certo, siamo molto diversi e me ne sono resa conto soprattutto negli anni che ho trascorso in Bangladesh». Il desiderio di partire per quel Paese così lontano dal Brasile le era venuto dopo aver letto un articolo sulla rivista delle Missionarie dell’Immacolata: «Diceva che laggiù battezzare era impossibile e io volevo andare proprio in un posto dove le persone non conoscevano Gesù. Dopo la mia formazione a Londra e poi a Roma, quando nel 2010 sono arrivata in Bangladesh, il primo impatto è stato molto forte. Ricordo il tragitto in macchina dall’aeroporto: non avevo mai visto tante persone in vita mia e mi chiedevo dove fossi capitata. Poi, però, mi sono abituata e ho imparato la lingua».
Un anno a Dacca in appoggio alla missione, tre anni in un villaggio in servizio a un asilo nido, poi altri ancora nella periferia di Dacca a contatto con i giovani: l’esperienza di suor Marisa è stata variegata. «Visitavo i malati, accompagnavo le donne vedove, sostenevo i giovani costretti a turni estenuanti e lontani da casa», racconta la missionaria.
Negli ultimi anni nel Paese asiatico ha collaborato al centro di accoglienza del Pime per giovani lavoratori nelle fabbriche del settore tessile. «Cerchiamo di aiutarli spiritualmente, ma non solo. Siamo un punto di riferimento per loro, anche per quanti affrontano malattie e difficoltà. Per me l’aspetto umano e pastorale vanno insieme». L’attenzione agli ultimi della società e il desiderio di prodigarsi per il bene del prossimo sono attitudini che suor Marisa si porta dietro fin dalla fanciullezza. Attiva come catechista in parrocchia, nel suo villaggio della regione brasiliana di Bahia, trascorreva molto tempo con le missionarie dell’Immacolata. «A quell’epoca le suore facevano un po’ di tutto e il vescovo aveva anche dato loro la facoltà di celebrare matrimoni, in mancanza di sacerdoti – racconta -. I padri venivano una volta ogni tanto a celebrare la Messa, magari anche solo una volta all’anno: quindi a portare avanti il lavoro pastorale erano le suore o i laici. C’era tanta povertà, ma le suore sostenevano tutti ed erano sempre felici». Aiutavano sia portando medicinali, sia accompagnando le persone in ospedale in auto, educando i bambini, formando i laici. La gioia delle religiose è ciò che ha incuriosito suor Marisa, insieme all’impulso «a voler fare di più». Da lì i primi incontri vocazionali, la consacrazione, la missione, fino ad approdare ora a Roma.
Oggi cerca di portare il suo spirito missionario ai bengalesi della capitale. Nonostante la preoccupazione per le famiglie lasciate in patria, la stanchezza per i lavori estenuanti e le differenze culturali, loro sanno di poter contare su di lei. Con le sue preghiere e con la sua laboriosa presenza, suor Marisa contribuisce a donare loro la speranza. MM