Il Paese, ancora sconvolto dal sisma di febbraio e minacciato dall’inflazione alle stelle, eleggerà, il 14 maggio, Parlamento e presidente. Una scadenza cruciale per il “sultano” Erdoğan: «Ma i problemi sono strutturali», dice il politologo Cengiz Aktar
«Anche se Erdoğan perdesse le elezioni – e non sono certo che succederà – questo non basterà a garantire un futuro migliore per il Paese». Cengiz Aktar è ben consapevole di quanto siano complesse e profonde le sfide per la sua Turchia che, ancora sconvolta dal sisma di febbraio, si prepara ad andare alle urne il 14 maggio per eleggere il Parlamento e il presidente. Un voto cruciale, che decreterà se l’uomo forte al comando da ormai un ventennio riuscirà a restare in sella per celebrare a ottobre i cent’anni dalla fondazione della Repubblica, nonostante i molti fallimenti della sua politica e l’inflazione alle stelle.
Per Aktar, politologo di Istanbul attualmente docente all’Università di Atene, la parabola del presidente “sultano” rappresenta tuttavia solo il volto più appariscente di una crisi strutturale che va oltre il crollo economico e la svolta autoritaria degli ultimi anni, per affondare le radici in quello che l’intellettuale, firma di Financial Times, Le Monde e Libération, chiama “il malessere turco”, come recita il titolo del suo ultimo saggio (Il canneto, pp. 114, euro 16). Un disagio profondo che cova sotto la superficie dell’altopiano anatolico fin dalla nascita della Turchia moderna e che le vicende recenti non hanno fatto che aumentare. «Molte persone, specialmente nell’area del terremoto, si sentono abbandonate dallo Stato: c’è tanta rabbia e un diffuso senso di impotenza. Eppure, se è vero che parte del Paese non sopporta più l’attuale regime, la Turchia è vasta e sfaccettata: non tutti la pensano allo stesso modo».
Le aperture dei primi Anni 2000, quando la nazione si era avviata su un percorso di riforme e appariva un possibile modello per i Paesi musulmani in cerca di democrazia e prosperità, lasciavano ben sperare. E invece, abbiamo assistito a un progressivo declino all’insegna della reazione e del totalitarismo.
Professor Aktar, che cosa è andato storto?
«Il periodo migliore per la Turchia è stato quando il Paese si preparava all’ingresso nell’Unione Europea: in quegli anni si erano originate dinamiche inedite, le spinte provenienti dall’Europa avevano creato un’incredibile sinergia con il desiderio di cambiamento della popolazione. Un processo di rinnovamento che stava dando buoni frutti ma che sfortunatamente si è del tutto arenato, per le responsabilità di entrambe le parti. Infatti, quando il governo turco ha cominciato ad abbandonare questo cammino di avvicinamento all’Occidente, alcuni Paesi del Vecchio Continente, e in particolare alcuni partiti politici al loro interno, ne sono stati visibilmente soddisfatti, perché fin dall’inizio erano contrari all’allargamento. Così abbiamo sprecato un’opportunità preziosa, con conseguenze disastrose».
Che cosa intende?
«Oggi l’unica politica europea nei confronti della Turchia è una relazione contrattuale: l’accordo sui rifugiati del marzo 2016 ne è solo un esempio. Si è scelto di trattare Erdoğan come un partner accettabile, senza porre le condizioni che sarebbero derivate da un’eventuale associazione all’Ue, di fatto supportando il suo regime. Nessun governo europeo ha denunciato le attività illegali della Turchia in Siria, dove è un potere occupante e sta cambiando la composizione demografica dell’area sotto il suo controllo, sbarazzandosi dei curdi e installando i jihadisti. Molti Stati, Germania in testa, stanno attuando la politica delle tre scimmie – non vedo, non sento, non parlo – ma quale sarà il risultato? È successo qualcosa di simile con la Russia, e abbiamo visto come è andata a finire. Il mio Paese ormai ha problemi così profondi e strutturali che, comunque vadano queste elezioni, prima o poi verranno al pettine e causeranno notevoli mal di testa all’Occidente».
La Repubblica turca celebra quest’anno il centenario della sua fondazione per mano del padre della patria Atatürk: perché sostiene che l’origine stessa della nazione abbia causato un trauma mai risolto?
«All’inizio del Novecento, con il collasso dell’Impero ottomano, i turchi dovettero inventare una nazione per mantenere vivo lo Stato. E decisero di basare questa costruzione artificiale sull’islam: per tutti i gruppi non musulmani che convivevano sotto l’impero, che era un mix etnico, religioso e linguistico per nulla monolitico, non c’era spazio. Circa 3 milioni di cittadini – una quota enorme sui 16 milioni di abitanti dell’area che corrisponde all’odierna Turchia – furono spazzati via attraverso genocidi, pogrom e lo scambio di popolazione con la Grecia. Quasi una persona su cinque scomparve e nessuno è mai stato punito per questi crimini, né ci sono stati risarcimenti per le vittime. Questo ha finito per produrre una sorta di disprezzo per lo Stato di diritto e una diffusa cultura dell’impunità, fino ad oggi. L’attuale regime, negli ultimi dieci anni, ha violato costantemente la legge e la Costituzione, eppure non è successo niente: la gente non si è ribellata. Perché, in fin dei conti, cosa sono i misfatti del regime – le ruberie, la corruzione… – a confronto di ciò che i nonni di moltissimi turchi fecero ai loro vicini di casa non musulmani cent’anni fa? Niente, noccioline! Questa è l’essenza di quello che chiamo “il malessere turco”».
In questi anni, tuttavia, c’è stato chi ha provato a opporsi al regime: intellettuali, giornalisti, molti dei quali hanno pagato con il carcere o l’esilio.
«È vero, ma purtroppo non si è mai trattato di una mobilitazione di massa, dalla base: la gente non osa andare fino in fondo, preferisce stare a casa e accettare questo regime come una fatalità. L’unico gruppo che davvero cerca di resistere è quello dei curdi. Ma, a parte alcune eccezioni, non c’è il coraggio di cambiare, né nella società civile, né a livello politico. Oggi, l’opposizione che corre per le elezioni va dall’estrema sinistra all’estrema destra e include una quantità incredibile di punti di vista diversi e spesso opposti: i partiti si sono uniti con l’unica politica comune di liberarsi di Erdoğan, ma non si può governare un Paese con soltanto un punto nella propria agenda politica. A queste condizioni, comunque vada il voto, resta molta incertezza».
La preoccupa il ritorno dell’islam politico in Turchia?
«Il territorio turco è stato occidentalizzato attraverso un processo che ha emarginato totalmente la religione. Questo ha indebolito il pensiero teologico musulmano e gradualmente ha lasciato spazio alla penetrazione dell’islam salafita, molto radicale, proveniente dall’Arabia Saudita e dai Paesi del Golfo, che dopo gli anni Cinquanta è diventato preponderante. L’unica parentesi interessante si è avuta, ancora una volta, durante il cammino per l’adesione all’Ue, quando per la prima volta si è cominciato a parlare di “democrazia musulmana”. Una svolta che avrebbe potuto essere rivoluzionaria, e infatti allora il Paese fu presentato come un modello per altre nazioni dell’area. Ma poi, con l’allontanamento dall’Europa, l’esperimento è fallito e la Turchia si è trasformata in una potenza leader dei Fratelli musulmani, con le conseguenze note in Egitto, Siria, Iraq, Libia… Un fallimento che non riguarda solo i turchi, ma il mondo intero».