Rimasta a lungo a operare nel suo Bangladesh, suor Konica Costa è stata inviata nel 2018 in missione a Salvador de Bahia, città afflitta da violenza e spaccio
Era un destino già scritto quello di suor Konica Costa: ha cominciato a frequentare le prime scuole cattoliche nel distretto di Gazipur, in Bangladesh, a cinque anni, accompagnando a lezione le sorelle più grandi. Fin da piccola è stata abituata a vivere circondata da consorelle, avendo molte zie e cugine già consacrate. Ma non si aspettava che dopo 26 anni di vita religiosa in Bangladesh, nel 2018 sarebbe stata inviata in Brasile, prima a Brasilia per imparare la lingua, poi nella diocesi di Registro e infine a Salvador de Bahia, una delle città più violente del Paese situata nell’omonimo Stato.
«Partecipavo alle domeniche di vocazione, facevo volontariato e almeno una volta a settimana recitavo il rosario», racconta la religiosa delle Missionarie dell’Immacolata. «Sentivo la mia devozione crescere, ma non era ancora abbastanza. Ero curiosa di scoprire nuove realtà». Eppure anche se al tempo suor Konica ancora non sapeva che si sarebbe unita a una congregazione missionaria, lo sapevano le persone che la circondavano, che forse avevano intravisto il suo attaccamento alla Chiesa. «Quando avevo solo 10 anni tutti scommettevano che sarei diventata suora, perfino un insegnante musulmano me lo disse». Oggi, a 54 anni, suor Konica sorride portando alla memoria questi ricordi, ma rivede nello sguardo di amici e parenti «una conferma indiretta della volontà di Dio». Mentre la sorella più grande, Stephalika, si era unita alle Missionarie della Carità, una sua cugina aveva scelto di consacrarsi tra le suore del Pime. «Non ero particolarmente attratta dalla missione. Tutto ciò che sapevo era che le Missionarie dell’Immacolata erano consorelle straniere, perlopiù provenienti dall’Italia», continua suor Konica. Ma l’incontro di persona con alcune suore dell’Istituto, venute a visitare il villaggio insieme alla cugina, fu determinante: «Mi sentii subito accolta con amore. Molti si uniscono alle congregazioni missionarie perché vogliono vedere il mondo; per me la cosa importante fu sentirmi subito trattata come una di famiglia». Lo zio, che le faceva da tutore dopo la morte del padre, avendo già una figlia missionaria, permise a Konica di seguire le consorelle senza esitazioni. Arrivata alla casa delle suore a Dhaka, le missionarie dissero che poteva restare con loro. Una proposta che è diventata una scelta definitiva nel 1992 quando suor Konica ha preso i voti.
La missione fuori dai confini del proprio Paese, però, ha dovuto ancora attendere. Venne inviata subito per una prima esperienza a Rangpur, dove vivono le tribù oraon, un gruppo etnico che non parla il bangali ma il khurukh e dedito al culto di Sarna Dhorum, detta anche “la religione del bosco sacro” perché venera gli alberi e la natura. Si trattava di gruppi di tribali di cui prima di allora suor Konica aveva solo sentito parlare. Le consorelle più anziane le raccomandavano di essere una «missionaria di prima classe» per servire al meglio le popolazioni locali, ma da quell’esperienza alla nuova missione sono poi passati quasi vent’anni.
Da circa un anno suor Konica vive in una parrocchia di recente istituzione a Salvador de Bahia, nel Brasile orientale. Secondo un’indagine condotta dalla testata brasiliana on line G1, che pubblica annualmente un’elaborazione dei dati governativi chiamata Monitor da Violência (monitoraggio della violenza), per il quarto anno consecutivo Bahia è lo Stato dove si è registrato il più alto numero di morti violente, calcolate conteggiando omicidi intenzionali, femminicidi, uccisioni per rapina e lesioni che hanno portato alla morte in un secondo momento. In termini assoluti nel 2022 sono state uccise 5.124 persone con una media di 427 omicidi al mese.
«Solo a gennaio e febbraio nel territorio della parrocchia sono state uccise più di 20 persone, tra cui anche alcuni adolescenti», racconta la religiosa. Si tratta di scontri armati legati allo spaccio di stupefacenti. «Quasi tutte le famiglie che visitiamo commerciano o sono dipendenti dalla droga», prosegue suor Konica. «Per i giovani è il modo più semplice di fare soldi. A volte ci dicono: “Dacci un lavoro”. È molto doloroso per noi vedere questa situazione, perché è vero che lo spaccio porta loro molti soldi, ma comporta anche rischi enormi e non dà nessuna felicità».
Lo Stato e le istituzioni sono presenti solo con squadre di polizia e carceri. «La maggior parte degli abitanti qui ha un parente in prigione. Un po’ di tempo fa una madre di due bambini è stata condannata per spaccio. Dopo essere stata rilasciata è finita di nuovo nella spirale della droga ed è stata condannata a 10 anni di carcere. Noi ci prendiamo cura di chi resta».
Suor Konica e altre due consorelle fanno visita ai fedeli di 11 comunità sparse sul territorio.La parrocchia di Nostra Signora di Guadalupe è stata creata due anni fa, per cui non esiste ancora una chiesa in cui riunirsi; ma a suor Konica pare non importare troppo: «È un nuovo modo di essere Chiesa in cui si mette al primo posto l’umanità delle persone. Siamo noi che andiamo dalle comunità e non viceversa», sottolinea. «Al massimo può esserci bisogno di un luogo di riferimento per parlare con il parroco. Noi ascoltiamo i bisogni dei fedeli andandoli a visitare a casa. E comunque le persone spesso non vengono a Messa perché hanno paura che la polizia venga ad arrestare i sospettati».
Suor Konica non è spaventata dal livello di violenza: «Ho fiducia in Dio – confida -, si prenderà Lui cura di me, perché qualcosa di spiacevole può succedere ovunque. Ma per fortuna suore e sacerdoti sono ancora molto rispettati e vengono lasciati in pace dalle forze dell’ordine». Tuttavia anche i religiosi devono fare attenzione: la sera non si può andare in giro da soli e le loro attività di visita ai poveri, agli anziani e agli ammalati non vengono promosse pubblicamente. Eppure anche così, senza una chiesa, lavorando un po’ nell’ombra «ci sentiamo tutti parte di una grande famiglia».
«Solo ora – aggiunge suor Konica – capisco perché le Missionarie dell’Immacolata che avevo conosciuto in Bangladesh si erano innamorate del Paese e non volevano più tornare in Italia. Quando sono rientrata in Bangladesh dopo i primi tre anni di missione, amici e parenti mi chiedevano di restare. Ma ora sento che il mio posto è qui, in questa parte di mondo».
BAHIA: CAPITALE DELLA VIOLENZA
Anche se il numero di omicidi in Brasile nel 2022 è sceso dell’1% in tutto il Paese si sono comunque registrate 40.800 morti violente, con un preoccupante aumento del 6,4% negli ultimi mesi dell’anno. Tra le città più colpite dalla violenza c’è Salvador de Bahia, capoluogo dell’omonimo Stato, con circa 60 morti ogni 100 mila persone, un numero più che doppio rispetto a quello registrato a Rio de Janeiro, in base a dati del 2015. Anche se la violenza ha continuato a calare negli ultimi anni segnando un trend positivo, non si risolve la questione che sta dietro gli scontri con armi da fuoco: lo spaccio di stupefacenti. Nello Stato di Bahia competono per il controllo delle città principalmente due bande rivali, il Comando de Paz e il Grupo de Perna, che hanno cominciato le loro attività vendicando la morte dei propri membri colpendo altri carcerati o il personale penitenziario. Le prigioni sono oggi un importante centro di reclutamento e un luogo “sicuro” per progettare nuove operazioni. Secondo alcuni esperti a Bahia si respira lo stesso clima di San Paolo negli Anni 90, quando il tasso di omicidi in alcuni quartieri schizzò a 100 persone ogni 100 mila abitanti.