Dopo due anni di guerra sanguinosissima, la regione più settentrionale dell’Etiopia ha ritrovato finalmente un po’ di stabilità, che ha permesso anche agli aiuti umanitari di arrivare alla popolazione stremata. L’impegno dei salesiani e del Vis
È durata due anni la più sanguinosa e la meno visibile delle guerre d’Africa: quella del Tigray, nel Nord dell’Etiopia. Due anni in cui tutte le comunicazioni – via terra e via aerea, via telefono e via Internet – sono state interrotte e in quel buco nero che è stata questa regione per lunghissimi mesi si sono consumate le peggiori atrocità e si è prodotta una delle più gravi crisi umanitarie al mondo.
Oggi, dopo la firma dell’accordo di pace, avvenuta lo scorso novembre a Pretoria, in Sudafrica, si vedono finalmente concreti spiragli di pacificazione. È quello che testimoniano anche i salesiani che sono sempre rimasti lì sul posto e che hanno continuato ad assistere migliaia di bambini e giovani, riconvertendo il loro impegno principalmente educativo in aiuti di primissima necessità. Ed è quello che racconta da Addis Abeba anche Chiara Lombardi, direttrice generale del Vis, l’organismo di Volontariato internazionale per lo sviluppo, nato nel 1986 su promozione del Centro nazionale opere salesiane e ispirato al messaggio di san Giovanni Bosco e al suo sistema educativo: «Per la prima volta, i sei membri del nostro staff, che hanno continuato a operare in Tigray, sono riusciti a comunicare con noi e alcuni di loro sono potuti finalmente volare nella capitale, dove ci siamo ritrovati dopo un periodo molto lungo e molto difficile».
In questi mesi, infatti, si sono riaperte un po’ alla volta le comunicazioni: telefoni e Internet, rigidamente schermati dal governo di Addis Abeba, hanno ripreso a funzionare, così come i voli interni, mentre le frontiere di terra sono rimaste parzialmente chiuse, anche se dallo scorso novembre circa 5.300 camion carichi di beni di prima necessità, medicinali e gasolio sono potuti transitare. «L’invio di aiuti umanitari è diventato più facile e continuiamo ad assistere le persone che sono state coinvolte nei due anni di conflitto – ha fatto sapere padre Abba Hailemariam Medhin, superiore dei salesiani in Etiopia, dove sono presenti 14 comunità, di cui 4 in Tigray (Makallè, Adigrat, Adwa e Shire) con 25 religiosi: «Le persone hanno ancora bisogno di generi alimentari e non solo – precisa il salesiano -. Stiamo lentamente riprendendo il servizio di assistenza psicologica e stiamo riaprendo i centri educativi, ma le persone necessitano soprattutto di cibo e servizi sanitari».
Non sarà facile ripartire in una terra che è stata brutalizzata. Cifre approssimative e impossibili da verificare – anche per la totale opacità sul fronte dell’informazione – parlano di 600 mila morti, 2,5 milioni di sfollati e 56 mila profughi su una popolazione di poco più di 7 milioni di persone. Per non parlare dei crimini di guerra – stragi, torture, stupri di massa, saccheggi e distruzioni – commessi da tutte le parti in campo: l’esercito federale etiope che ha invaso la regione nel novembre 2020, le forze del Fronte popolare di liberazione del Tigray, che si oppongono al governo di Addis Abeba, e i militari eritrei, alleati di quest’ultimo, ma mai ufficialmente riconosciuti come parte in causa nella guerra, nonostante le molte atrocità testimoniate dalla popolazione civile.
Complessivamente, circa 9,4 milioni di persone, non solo in Tigray, ma anche nelle vicine regioni Amhara e Afar, sono state colpite direttamente o indirettamente da questo conflitto, che ha aggravato una situazione umanitaria già critica a causa della prolungata siccità, sopravvenuta dopo le terribili invasioni di locuste e la pandemia di Coronavirus. Una situazione che riguarda anche altre regioni del Paese. Secondo l’Ethiopian Humanitarian Response Plan, più di 20 milioni di persone hanno urgente bisogno di aiuti: i due terzi sono donne e bambini.
Questi ultimi, in Tigray, hanno subito anche le ripercussioni della chiusura di circa 2.300 scuole provocata dalla guerra. Molte non sono state riaperte per il terzo anno consecutivo. Circa 2,3 milioni di bambini (tra cui 1,8 milioni di ragazze) hanno dovuto lasciare le loro classi. E moltissimi soffrono di malnutrizione.
Lo conferma anche Chiara Lombardi che, prima di diventare direttrice del Vis, è stata cooperante per diversi anni, da sola e poi con la famiglia, proprio in Etiopia, Paese che conosce molto bene sia nei suoi aspetti più problematici, ma anche per la sua straordinaria ricchezza storica, culturale e sociale. «Il Vis è presente in Etiopia da più di vent’anni – racconta -. Durante il conflitto in Tigray molte attività sono state sospese o rallentate. In questi ultimi mesi, tuttavia, abbiamo ripreso diversi progetti sia per far fronte alle emergenze, ma soprattutto per poter guardare al futuro. In questo momento, stiamo intervenendo soprattutto per potenziare la nutrizione di circa 700 bambini e bambine sotto i cinque anni con prodotti alimentari ad alto contenuto nutrizionale e nel sostegno alle loro famiglie. Inoltre, attraverso la rete salesiana, abbiamo ripreso la distribuzione di cibo, in particolare farina e olio da cucina, a più di 900 famiglie, garantiamo fornitura di acqua pulita per uso domestico a 6.650 persone e abbiamo distribuito beni di prima necessità per l’igiene personale a quasi 1.700 famiglie, per un totale di 8.350 individui».
Nonostante le difficoltà, Lombardi esprime un certo ottimismo e una buona dose di fiducia, sentimenti che ha raccolto e condiviso anche dallo staff locale. «Il clima che si respira in queste ultime settimane è certamente ancora di fatica, ma anche di voglia di ricostruzione. Lo vediamo pure tra i nostri operatori che, nonostante le difficoltà, con molti alti e bassi e spesso senza stipendio perché era impossibile farlo arrivare in Tigray, hanno comunque continuato a prestare assistenza alla popolazione, facendo rete con altre organizzazioni umanitarie. E adesso che la situazione è più tranquilla, si può finalmente pensare a una fase di ripresa».
Gli stessi salesiani stanno riattivando gradualmente molte attività in particolare con bambini e giovani. Sono circa cinquemila quelli che beneficiano di servizi, soprattutto educativi, in scuole, istituti tecnici, centri giovanili e parrocchie. «Con i salesiani – precisa Chiara Lombardi – stiamo cercando di far ripartire corsi brevi e training di formazione professionale per dare ai giovani la speranza e le capacità per rimettersi in piedi e costruirsi una vita dignitosa nella loro terra. Inoltre, vorremmo rilanciare anche le attività ricreative e di sostegno psico-sociale specialmente per i più vulnerabili». Le scuole rappresentano un punto di riferimento e di ripartenza fondamentale per ricostruire una regione completamente devastata. Molti edifici, tuttavia, sono ancora occupati dagli sfollati, che un po’ alla volta stanno facendo ritorno alle loro abitazioni; altri sono stati danneggiati e manca il personale docente. E molti bambini che hanno lasciato le scuole durante il conflitto difficilmente vi faranno ritorno.
«Non sarà facile riaprire le scuole dopo tre anni di chiusura – precisa la direttrice del Vis -, ma è importantissimo per ricostruire questa terra e la sua gente. Anche noi, come organismo di cooperazione internazionale, stiamo cercando di pensare al futuro, specialmente attraverso progetti di sviluppo interrotti a causa del conflitto. Siamo consapevoli che la riconciliazione non si fa in un giorno, ma è un processo. E tuttavia pensiamo che oggi bisogna credere ai segnali positivi e avere fiducia».
Cosa è successo
Il 4 novembre 2020, il premier etiope Abiy Ahmed dichiara lo stato di emergenza nella regione “ribelle” del Tigray e lancia un massiccio intervento delle forze di terra e aeree. Ma quella che doveva essere una guerra-lampo contro il Fronte popolare di liberazione del Tigray si trascina per due anni, a causa della reazione delle milizie tigrine e dell’intervento di altri gruppi armati non statali, come l’Oromo Liberation Army (Ola), mentre il governo federale viene supportato non ufficialmente dall’esercito dell’Eritrea.
Il 2 novembre 2022, in Sudafrica, viene firmato un accordo di pace che prevede il ripristino dell’autorità federale su tutta la regione del Tigray, il disarmo delle milizie, il ritiro dei militari eritrei e la riapertura dei flussi di aiuti umanitari.