Mentre a Gaza cadono le bombe, la tensione monta in Cisgiordania, dove da anni Daoud Nassar, palestinese cristiano, ha creato “la tenda delle nazioni”, un luogo di resistenza nonviolenta in un podere minacciato di sfratto: «Anche oggi, nessuno per noi è un nemico. Ma serve giustizia». Ascolta anche il PODCAST
Raggiungere la fattoria della famiglia Nassar, sulla collina che domina il villaggio palestinese di Nahalin, a sud-ovest di Betlemme, oggi è più complicato che mai. L’unica strada asfaltata accessibile ai residenti è stata chiusa da uno dei blocchi stradali imposti dall’esercito israeliano, mentre la nuova carrozzabile che corre poco lontano è riservata ai cinque insediamenti ebraici che circondano l’area.
Mentre a Gaza il conflitto si sta trasformando in una catastrofe umanitaria senza precedenti, la tensione è alle stelle anche in Cisgiordania. Tra la militarizzazione del territorio e la crescente aggressività dei coloni ebrei, la vita quotidiana è diventata una scommessa pericolosa. «Le città e i villaggi palestinesi sono tagliati fuori l’uno dall’altro e noi siamo sistematicamente separati dalle nostre terre», sospira Daoud Nassar, che con il fratello Daher e la sorella Amal gestisce l’appezzamento – quaranta ettari di terreno coltivabile – appartenente alla loro famiglia da quattro generazioni. «La raccolta delle olive è stata molto complicata, e parecchi contadini qui attorno hanno rinunciato a coltivare i propri campi…».
Il cancello che si apre dopo un percorso tortuoso tra i villaggi dà il benvenuto a quella che, da ormai 24 anni, questi fratelli palestinesi di fede cristiana hanno trasformato nella “Tenda delle Nazioni”. La loro è una lunga storia di resistenza nonviolenta ai tentativi di esproprio ma anche alla logica dell’inevitabile separazione lungo linee etniche e religiose che spesso in questa terra tormentata sembra l’unica possibile. Ma i fratelli Nassar non sono d’accordo. La scritta che campeggia all’ingresso della proprietà, dipinta con vernice colorata su un grande masso, è eloquente: “Ci rifiutiamo di essere nemici”, dice.
«Era il 1991 quando lo Stato di Israele provò per la prima volta a nazionalizzare la fattoria, che secondo i documenti ufficiali di epoca ottomana fu acquistata da mio nonno nel 1916», racconta Daoud, oggi 53 anni. «Da allora è in corso un’estenuante battaglia legale a colpi di ordini di demolizione e rinvii, richieste di nuove carte e udienze rimandate all’infinito. Una situazione che ci ha costretti a una costante precarietà e ci ha sottoposti a pesanti pressioni». Mentre intorno alla collina crescevano i nuovi insediamenti di coloni, i Nassar lottavano con una serie di divieti dall’impatto potenzialmente letale per le loro attività: «Oltre a non poter edificare nuove strutture, siamo stati tagliati fuori dalla rete elettrica e da quella idrica», spiega Daoud, che si è trovato ad affrontare una quotidianità surreale insieme alla moglie Jihan e ai tre figli.
«Avremmo potuto reagire con la forza, come altri scelgono di fare, o sederci a piangere e diventare vittime, oppure lasciare tutto e andarcene. Ma non volevamo accettare nessuna di queste opzioni», spiega. «Rifiutiamo di essere vittime, così come rifiutiamo di odiare: nessuno può obbligarci a farlo. Come cristiani crediamo nella nonviolenza e nella giustizia. E così, abbiamo cominciato a considerare tutti gli ostacoli come sfide da superare: non abbiamo energia elettrica? Installiamo pannelli solari. Ci tolgono l’acqua per irrigare i campi? Montiamo cisterne per raccogliere quella piovana. Ci vietano di costruire sul terreno? Creiamo spazi sottoterra». In effetti, molti ambienti di questa fattoria biologica – e persino un’accogliente cappella – sono stati realizzati adattando le grotte esistenti nella proprietà. Ricavato da una cavità, con piccole finestrelle alte (e un murale che riporta una citazione dal Vangelo di Giovanni: “Io sono la vite, voi siete i tralci”) è anche l’appartamento adibito all’ospitalità di visitatori, pellegrini e volontari.
Di fronte alle minacce di sfratto, infatti, la fattoria si è trasformata negli anni in un luogo aperto a chiunque, dai dintorni o da lontano, voglia venire a sostenere la lotta dei Nassar dando una mano nelle innumerevoli mansioni quotidiane: coltivazione e irrigazione dei campi, raccolta della frutta e delle olive, vendemmia, e poi preparazione delle conserve, attività di riciclo, manutenzione dei muretti a secco e delle cisterne.
«Ad aiutarci ci sono cristiani e musulmani, così come, qualche volta, ebrei impegnati per i diritti umani e per l’ambiente, visto che alla fattoria abbiamo un approccio organico e sostenibile: costruiamo ponti tra le persone e tra le persone e la terra», racconta Daoud, che emana un carisma positivo e ha un sorriso contagioso. «A tutti vogliamo fare respirare una ventata di speranza, trasmettere il messaggio che collaborare è possibile. D’estate, poi, organizziamo un campo per una cinquantina di bambini dei dintorni: ogni giorno diamo loro l’occasione di evadere da una situazione difficile, spesso traumatica, e stare a contatto con la natura e con gli animali. Attraverso tante attività come la musica, il teatro, i laboratori di mosaico, li aiutiamo a scoprire le proprie potenzialità, a credere in loro stessi e a uscire dalla mentalità vittimistica che li circonda: cerchiamo sempre di focalizzarci sul bicchiere mezzo pieno».
Uno sforzo notevole oggi, mentre le bombe cadono incessantemente su Gaza e anche la Cisgiordania è in fiamme. «La situazione è davvero dura», conferma Nassar. «Le confische di proprietà e le demolizioni sono all’ordine del giorno, mentre spostarsi è diventato quasi impossibile. La mia figlia maggiore, che frequenta la scuola a Ramallah, a una trentina di chilometri da qui, deve partire da casa alle 5 di mattina per non tardare alle lezioni delle 9. Tutti i palestinesi vivono alla giornata». E anche i volontari stranieri subiscono gli effetti delle restrizioni: «Farli arrivare qui è molto più complicato, e oggi non possiamo accogliere chi non ha già una certa esperienza», spiega Daoud.
Eppure, nonostante tutto, in questi mesi i giovani non hanno mai smesso di bussare alla Tenda delle Nazioni: «Gli ultimi due venivano dal Belgio e dal Regno Unito e molti altri vorrebbero raggiungerci tra la primavera e l’estate. Per noi la loro presenza è vitale, non solo per il sostegno nel lavoro ma anche perché ci garantisce una certa visibilità internazionale e quindi protezione: saremmo felici di avere anche ragazzi italiani! Tuttavia, dovremo vedere la situazione sul terreno per capire se sarà possibile aprire le porte».
In mezzo all’inferno che si è scatenato in Terra Santa, è ancora possibile “rifiutarsi di essere nemici”? Daoud esita soltanto un attimo. «Tra i palestinesi c’è grande frustrazione e anche rabbia. Israele ha vissuto un trauma gravissimo ma la soluzione non è caricare gli altri con restrizioni e vincoli impossibili da sopportare. Ci vuole giustizia: pensare solo alla propria sicurezza, dimenticando i diritti dell’altro, non porterà la stabilità. Temo per i giovani palestinesi, che stanno crescendo ostaggio di questa rabbia, ecco perché attraverso le nostre attività cerchiamo sempre di trasformare l’energia negativa in una forza positiva, che possa costruire e non distruggere. Come cristiani continuiamo a non vedere nessuno come un nemico, anche se denunciamo le azioni sbagliate. Siamo il popolo della resurrezione: possiamo rinascere dalla sofferenza, senza restare intrappolati nel circolo dell’odio».