Trent’anni di vita nel grande Paese latinoamericano, sperimentando nuove vie di missione insieme ai laici sia in zone rurali che in contesti urbani violenti. L’esperienza di suor Graziella Airoldi
Servirebbe una grande cartina per seguire tutti gli spostamenti di suor Graziella Airoldi, missionaria dell’Immacolata in Brasile. Ma anche una macchina del tempo per ripercorrere trent’anni di missione – inframmezzati da due parentesi italiane – spesi con i popoli di questo grande Paese latinoamericano. Una storia ricchissima soprattutto di incontri e di reciproca accoglienza. Di poveri che aiutano altri poveri. Di lei che ha dato tanto, ma che ripete come un ritornello: «Tanto ho imparato».
Originaria di Suisio, 74 anni il primo maggio, suor Graziella mischia l’accento bergamasco delle origini con quello ormai marcato del portoghese brasiliano: «Desculpa! Ogni tanto non mi vengono più le parole in italiano…». Sorride e negli occhi scorrono le immagini di tanti luoghi e di tantissime persone, di strade sterrate e di comunità sparse nel nulla, ma anche di quartieri violenti e di nuove missioni da aprire. «E pensare che ero così timida e quasi non parlavo…», sussurra.
Eppure di strada ne ha fatta tanta – e non solo in senso metaforico – da quando è partita per il Brasile nel 1986, pochi giorni dopo i voti perpetui. In tasca un diploma da maestra di scuola materna e nessuna esperienza pastorale. Destinazione: Mato Grosso del Sud, in una missione aperta dalle consorelle un anno prima e poi subito lasciata, senza parrocchia né parroco, ma «con un gruppo di laici meravigliosi, che ci hanno aiutato moltissimo, come poi è sempre successo anche in altre zone del Brasile. È stata un’esperienza molto forte all’inizio. Ci sentivamo impreparate», ricorda.
Era tutto nuovo e tutto da fare: un cammino da cominciare praticamente da zero. «Abituata ad andare a Messa tutti i giorni, mi sono ritrovata in un luogo dove non solo la Messa veniva celebrata ogni due mesi, ma dovevamo fare tutto noi: visite alle famiglie, catechismo, incontri, celebrazioni, battesimi… Il tutto in una società e in una cultura molto diverse dalla mia, anche nel modo di vivere la fede. Ma abbiamo accettato la situazione e questo ha rafforzato la nostra vocazione missionaria che è quella di portare l’annuncio a quelli che sono lontani. Non potevo capitare in un posto migliore!».
Come spesso succede ai missionari, quando pensava di essersi “acclimatata” e “acculturata”, suor Graziella è stata trasferita in un’altra zona, molto lontana da lì, nella diocesi di Registro, a sud di San Paolo. Un altro inizio. «Qui per la prima volta ho fatto esperienza della pastorale dei bambini, che le mie consorelle avevano iniziato solo un anno prima. Accompagnavamo le donne incinte fino alla nascita dei figli e poi le invitavamo tutti i mesi per un incontro in cui si pesavano i bambini, si davano cibi terapeutici a quelli malnutriti e si fornivano nozioni di igiene e alimentazione alle mamme». Nel contempo, venivano formate anche alcune laiche affinché si facessero carico direttamente delle visite alle famiglie con figli al di sotto dei sei anni. «Ciascuna doveva accompagnare circa 25 bambini. Abbiamo fatto moltissima formazione e siamo riuscite ad avere un centinaio di leader che seguivano tante comunità, alcune molto lontane», dice suor Graziella che ha imparato, lei stessa, a preparare farine e cibi “arricchiti” e medicine naturali per i bambini e le famiglie bisognose.
Altre due tappe hanno segnato l’esperienza missionaria di suor Graziella: Antônio Gonçalves e Santo Amaro, entrambi nello Stato di Bahia, il primo all’interno, il secondo sulla costa atlantica. «Antônio Gonçalves è in una zona rurale e anche lì, all’inizio, non c’era nessun prete. C’erano però una scuola materna, un centro sanitario e una biblioteca. Poi, con l’aiuto della Fondazione Marcello Candia, abbiamo aperto una scuola agricola dove i giovani potevano acquisire delle competenze e poi condividerle con la loro comunità». Un grande problema, però, era quello dell’acqua: «Abbiamo aiutato a realizzare delle cisterne per raccogliere la pioggia che scarseggiava sempre e siamo riuscite a portare l’acqua in alcune comunità, anche se in alcuni casi le autorità locali invece di aiutarci ci ostacolavano».
Anche qui le missionarie hanno dovuto farsi carico di tutte le attività pastorali, in mancanza di un prete, ma con la presenza di alcuni laici che loro stesse hanno contribuito a formare con il sostegno della diocesi. «La cosa più importante è renderli autonomi, sia per le attività sociali che per quelle pastorali», sostiene suor Graziella, che ovunque è stata si è sempre impegnata molto nel campo della formazione. «Adesso – sottolinea con orgoglio – ad Antônio Gonçalves non ci sono più le suore, ma ci sono una trentina di laici associati alle Missionarie dell’Immacolata, che condividono il nostro carisma di annuncio del Vangelo e di cura delle persone».
Dalla campagna alla città, la missione a Santo Amaro ha rappresentato per suor Graziella un’altra grande sfida. Con una presenza maggioritaria di afrodiscendenti, la zona presentava caratteristiche del tutto nuove e particolari, sia culturalmente che dal punto di vista religioso: lì moltissima gente pratica il candomblé, una religione afro-brasiliana “importata” dagli schiavi youruba della Nigeria, e c’è molto sincretismo. «Ma la cosa più difficile da affrontare – fa notare la missionaria – era la violenza diffusa, spesso legata al traffico di droga». «Quando entravo in alcune zone della città, la gente mi diceva di salutare tutti e di non guardare nessuno in faccia. Molte persone, i cui figli frequentavano le nostre attività, erano implicate nei giri di droga e della malavita. Tanti sono stati uccisi. La sera, quando tornavo a casa, un gruppo di donne mi accompagnava. C’era sempre il rischio di finire in mezzo a una sparatoria».
Nel quartiere, suor Graziella ha portato avanti un doposcuola in due turni con una sessantina di bambini e corsi di capoeira con circa 60 giovani e ragazzi della scuola. «Era un modo per tenerli vicini e accompagnarli. Nella capoeira ci sono regole molto precise che ti impongono di rispettare il tuo “avversario”. In questo senso è molto educativa. Per noi, era anche un modo per tenere quei ragazzi lontani dalla malavita. Alcuni erano figli di criminali. In genere, però, gli adulti ci rispettavano perché sapevano che lavoravamo anche per il bene dei loro figli. Non era facile, ma è la nostra missione. Io non avevo paura, perché il Signore ci protegge. È quello che dice il Vangelo».
Nonostante tutto, il periodo più duro, secondo suor Graziella, non è stato quello di Santo Amaro, ma quello della pandemia di Coronavirus: «Sono rimasta bloccata a San Paolo un anno e mezzo!». Poi finalmente la partenza per un’altra nuova missione, quella in cui si trova tuttora nella parrocchia di Sant’Anna a Indipendência, nello Stato del Céara, nel Nord-est del Brasile, con capitale Fortaleza. Qui condivide le attività con altre due missionarie dell’Immacolata, suor Sonia Sala, italiana, e suor Vivian Wai Man Bok di Hong Kong. «Seguiamo una settantina di comunità, alcune molto lontane e letteralmente in mezzo al nulla! È gente molto povera, ma molto accogliente. Mi colpisce sempre come si aiutino gli uni gli altri. Poveri che aiutano altri poveri… Anche qui!». Riflette un attimo, suor Graziella, e poi ripete per l’ennesima volta: «Mi hanno insegnato molto!».