Circa duemila persone, in gran parte monaci, vennero massacrate dal regime fascista nel maggio del 1937. L’Italia non ha mai chiesto scusa. Un libro di Paolo Borruso getta nuova luce su una strage “dimenticata”
È una delle pagine più tragiche e oscure della storia coloniale italiana. Anche per la Chiesa e i missionari. È la strage di Debre Libanos, avvenuta il 21 maggio del 1937. Una vendetta spietata del generale Rodolfo Graziani che prese di mira quello che era non solo uno dei simboli del cristianesimo etiope, ma il cuore stesso dell’identità di un popolo: il monastero di Debre Libanos, appunto, nei pressi di Addis Abeba. Qui vennero massacrate ufficialmente 452 persone, ma più verosimilmente tra le 1.432 e le 2.033. Si trattava in gran parte di monaci, ma anche di diaconi, pellegrini, parenti delle vittime… Una vera e propria ecatombe. Una strage portata a termine con lucida efferatezza.
Le cronache raccontano di monaci legati, trasportati su camion militari e fucilati sul greto di un fiume. O di diaconi e pellegrini, fatti allineare davanti ai fossati scavati e massacrati con raffiche di mitragliatrici.
Su quella pagina nera della storia coloniale italiana, ancora ampiamente ignorata o misconosciuta, fa luce con abbondanza di documentazione e accuratezza di dettagli il professor Paolo Borruso, docente di Storia contemporanea alla facoltà di Lettere e filosofia alla Cattolica di Milano e autore di Debre Libanos 1937. Il più grave crimine di guerra dell’Italia (Laterza, Bari 2020, pp. 272, euro 20, prefazione di Andrea Riccardi).
«Perché accanirsi contro un obiettivo religioso? – riflette il professore Borruso -. Graziani, sostenuto da Mussolini, vuole colpire il cuore del cristianesimo in quanto elemento di continuità con l’impero etiope. Vuole, insomma, eliminare l’ultimo residuo dell’impero, cancellando l’anima di un popolo».
Non si tratta insomma di una semplice “vendetta” seguita all’attentato subìto dallo stesso Graziani qualche mese prima. Certo, c’è anche questo all’origine della strage. Ma c’è molto di più. Perché venne pianificata e portata avanti con metodo. «Scegliendo, ad esempio – come ci fa notare il professor Borruso – la data di un’importante celebrazione della Chiesa etiope, con la certezza, dunque, di poter colpire un gran numero di persone».
Non solo però: «La strage di Debre Libanos – continua – include elementi più profondi, che vanno a toccare il sistema religioso, la fede di un popolo, la sua anima e la sua cultura che hanno radici antichissime. L’Etiopia sfugge alle categorie delle missioni europee. Si tratta di un caso unico di cristianesimo africano con una storia millenaria e una sua solidità».
In effetti, le origini cristiane dell’Etiopia risalgono addirittura alla predicazione di san Filippo evangelista nel primo secolo dopo Cristo e sono dunque di diretta derivazione apostolica. La Chiesa ortodossa etiope venne quindi fondata nel IV secolo, quando il cristianesimo divenne anche religione di Stato, in seguito alla conversione del re Ezana di Axum da parte di san Frumenzio. Legata sino al 1959 alla Chiesa copto-ortodossa di Alessandria, oggi ha un suo patriarca e conta circa 40-50 milioni di fedeli (si veda, a tal proposito, l’imponente lavoro in due tomi di Albero Elli, Storia della Chiesa ortodossa d’Etiopia Tawāḥedo, ed. Terra Santa, 2017, euro 95).
Al tempo della conquista dell’Etiopia, la Chiesa Tawāḥedo rappresentava un baluardo di identità e di spiritualità per il popolo etiope. Proprio per questo, prima ancora della strage, la propaganda fascista aveva contribuito pesantemente a denigrarla e sminuirla.
«Era passata l’idea – precisa il professore Borruso – che il cristianesimo etiope fosse eretico o scismatico. E questo anche nel mondo cattolico italiano, le cui responsabilità nella strage di Debre Libanos sono ovviamente indirette, ma non inesistenti. La propaganda fascista, infatti, travolge pure una parte del mondo cattolico e delle autorità ecclesiastiche italiane. Questo aprì la strada anche a certi stereotipi sull’Etiopia e sul cristianesimo etiope. Quando poi tale propaganda diventa incalzante e comincia la guerra d’Etiopia, nel mondo cattolico e missionario cambia totalmente la visione di questo Paese e del suo cristianesimo che viene descritto come eretico. Il regime cerca così di sostenere la campagna d’Etiopia anche con motivazioni religiose e missionarie».
Ci aveva già provato Antonio Cataldi con il suo libro Le missioni cattoliche italiane nelle colonie d’Etiopia e d’Eritrea (Grifo, Montepulciano 2015, pp. 316, euro 20) a cercare di fare un po’ di luce su questo aspetto ancora oggi semisconosciuto e controverso. Ora il volume di Borruso allarga e approfondisce ulteriormente lo sguardo.
Dopo la conquista dell’Eritrea nel 1890 e dell’Etiopia nel 1936, la Santa Sede affida questi territori a diverse congregazioni italiane: l’Eritrea ai cappuccini, così come il vicariato apostolico di Harar, la prefettura di Deniè ai francescani, il vicariato di Gimma alla Consolata, la Prefettura di Gondar ai comboniani. Anche al Pime venne assegnata la prefettura del Neghelli nel Sud dell’Etiopia, prima missione africana dell’Istituto, dove rimase per pochi anni. A parte poche eccezioni (tra le quali Cataldi cita il missionario del Pime Vincenzo Marcuzzi, il comboniano Pio Ferrari e i cappuccini Angelico da Mone e Gabriele da Casotto), anche la gran parte dei missionari non sfuggì alle logiche fasciste. O, per lo meno, non le criticò apertamente.
«Una cosa che mi ha molto colpito è il silenzio documentario – conferma Borruso -. Lavorando negli archivi delle congregazioni missionarie, non ho trovato traccia di documenti relativi agli anni 1936/1937. In particolare, in quelli dei cappuccini e della Consolata, che ebbero una maggiore presenza in quegli anni, ammessa dal governo italiano, non ho trovato praticamente nulla. Colpisce questo silenzio. Gli unici documenti che ho trovato si trovano alla Farnesina: riguardano due religiosi cappuccini che protestavano per le violenze di cui si sentiva parlare. Questo disturbò l’azione del regime e i due vennero rimossi dalle loro missioni».
Anche da questo punto di vista, il libro di Borruso e la vicenda di Debre Libanos ci permettono di fare i conti con una pagina di storia che è rimasta troppo a lungo dimenticata o relegata agli studi e ai dibattiti accademici. Una sorte che, in qualche modo, è toccata un po’ a tutta la vicenda coloniale italiana, completamente “accantonata” nel dopoguerra (con qualche felice eccezione come quella di Angelo del Boca a fine anni Sessanta/Settanta), o data come “risolta” negli anni Ottanta/Novanta.
«Riportare l’attenzione su questo episodio – conclude Borruso – significa per me riproporre il problema della ricaduta della storiografia sulla storia nazionale, ma anche trasmetterne la conoscenza alle nuove generazioni che sanno poco o nulla della storia coloniale. Quella di Debre Libanos è una memoria viva in Etiopia. Questo tragico evento ha lasciato tracce profonde. È importante riproporre questa memoria anche in Italia. Per questo spero che si possano fare i passi promessi».
Il ministro della Difesa Lorenzo Guerini ha, infatti, annunciato lo scorso febbraio che si recherà in Etiopia sul luogo dell’eccidio a «rendere omaggio alle vittime e alla verità». Mentre il cardinale Gualtiero Bassetti, presidente della Cei, ha chiesto «scusa ai fratelli dell’Etiopia per la mancanza di rispetto che si ebbe nei confronti dei loro padri». La speranza è che queste parole si traducano presto in gesti concreti.