Sako: il mio Iraq nelle mani dei giovani

Sako: il mio Iraq nelle mani dei giovani

La rivoluzione dei ragazzi che per la prima volta da un secolo si ribellano al settarismo, ma anche la necessità di un nuovo linguaggio teologico. E poi le sfide dei cristiani e dei musulmani: parla il patriarca caldeo


«I giovani iracheni, che da mesi rivendicano con forza la dignità umana schiacciata dalla classe politica corrotta, rappresentano l’unica speranza non solo per il nostro Paese ma per l’intera regione mediorientale». È molto deciso il cardinale Louis Raphaël Sako. Quei ragazzi che lo scorso ottobre scesero in massa nelle piazze, da Baghdad a Bassora a Karbala, per protestare contro disoccupazione, mancanza di servizi, immobilismo politico e che solo il Coronavirus ha convinto oggi a lasciare temporaneamente le proprie postazioni, lui è andato a incontrarli di persona nella capitale, unico capo religioso a compiere un gesto di supporto così esplicito.

«L’ho fatto perché, in questo movimento, ho ravvisato una novità assoluta: i suoi esponenti non parlano dei diritti dei sunniti o degli sciiti, dei curdi o dei cristiani, ma lottano nel nome della patria irachena, di cui vogliono salvaguardare la sovranità», spiega il 71enne patriarca di Babilonia dei Caldei. «Non chiedono un cambio della classe politica, ma dell’intero sistema. È una rivoluzione, la prima di questo tipo da un secolo».

Perché lei sostiene che si tratta di una protesta “evangelica”?

«Perché le richieste di questi giovani sono le stesse di Gesù, che nel Vangelo attacca i ricchi corrotti, i politici in malafede come Erode, le autorità religiose ottuse e il settarismo».

I cristiani iracheni sono parte di questo movimento?

«In queste piazze non si parla di cristiani o musulmani ma di cittadini… Comunque sì, certo, i cristiani ci sono, perché anche loro hanno sofferto molto a causa del settarismo, sono persino stati perseguitati, e come tutti gli altri subiscono la miseria e la mancanza di opportunità. Alcuni sono tornati dall’estero apposta per partecipare alla protesta contro il regime. Ciò che mi ha molto colpito è la presenza nelle piazze delle donne: tante ragazze, ma anche signore non più giovani che cucinavano e davano una mano ai manifestanti e intanto gridavano contro l’ingiustizia».

Il movimento ha già pagato un prezzo altissimo alla repressione: oltre 600 morti e 27 mila feriti, circa 2.800 arresti. Ora potrebbe trasformarsi in formazione politica. Resisterà?

«Penso che il governo non possa ignorare questa incredibile determinazione. È davvero un miracolo: questi giovani non hanno paura, perché hanno una causa. In un vocabolario cristiano direi che hanno una vocazione. Non solo. Gli esponenti del movimento sono molto istruiti: parlano meglio degli stessi politici e quando vengono interpellati dai mass media usano un linguaggio nuovo: chiedono dignità, cittadinanza, un regime civile, alcuni parlano anche della separazione tra Stato e religione. Non si sono lasciati manipolare dalle forze che tradizionalmente cavalcano il malcontento della gente. Criticano la politica che strumentalizza la fede e la religione che sfrutta la politica per interesse».

Che ruolo ha la Chiesa in questo tentativo di superare tribalismo e settarismi?

«In mezzo a tante sfide e sofferenze, noi siamo consapevoli di avere una vocazione e una missione in Iraq. Siamo vicini a tutti quelli che hanno bisogno, in questi anni abbiamo molto aiutato gli sfollati di qualunque confessione. Io stesso sono andato nelle città sunnite e sciite a portare il cibo, le medicine, l’acqua, per dimostrare che tutti, in quanto uomini, siamo fratelli. Si tratta di un messaggio nuovo nel nostro contesto, perché resiste una cultura secondo cui l’altro, diverso da me, è un nemico. Io invece, come cristiano, dico: no, è un fratello! Oggi è tempo, per la Chiesa, di testimoniare una mentalità alternativa: noi parliamo di amore, di carità, di perdono “settanta volte sette”, non della vendetta, del sangue. E la gente lo vede. Siamo una minoranza, ma molto dinamica».

Lei ha parlato di una “teologia della liberazione araba”. Che cosa intendeva?

«È stata un’ispirazione che mi è venuta dalle proteste di piazza. I nostri giovani si sono mobilitati non per un interesse di parte ma per liberare la popolazione irachena dalla corruzione, da una politica che ha rubato tutto, dal petrolio alla dignità. Dunque c’è un legame con la teologia della liberazione latinoamericana. E noi, come Chiesa, dobbiamo discernere i segni dei tempi: siamo di fronte a un’istanza profondamente umana che è spirituale e ci interpella come cristiani. La libertà, del resto, ritorna con forza anche nella predicazione di Gesù».

Serve una nuova teologia araba?

«In più occasioni, già durante il Sinodo per il Medio Oriente e di recente all’incontro Cei di Bari sul Mediterraneo, ho parlato della necessità di un nuovo vocabolario teologico per presentare la nostra fede non solo ai cristiani ma anche ai musulmani. Quello che abbiamo oggi è un linguaggio classico, filosofico, che non comunica più. La Chiesa cattolica ha il carisma dell’aggiornamento, dunque ci vogliono non solo una nuova teologia ma anche una liturgia che aiuti la gente a partecipare e poi a vivere ciò che proclama durante le celebrazioni. Perché non fare una festa invece di fare un rito? Siamo nell’era dei social media: perché non approfittarne per creare un nuovo linguaggio che sia comprensibile a tutti, e non più quello che si rifà al Medio Evo o al periodo classico? Noi in seminario abbiamo studiato la teologia in forma di scienza, un sistema. Ma la gente ha bisogno di un messaggio per la sua vita, non di un complesso di testi o di termini da imparare. La fede predicata da Gesù è vita e le persone cercano la vita, la gioia, la speranza. Ma dove sono oggi la gioia, la speranza, in Oriente e anche in Occidente?».

Sta dicendo che la spiritualità orientale ha un contributo da offrire anche all’Occidente?

«La teologia, la patrologia, la liturgia orientali rappresentano un patrimonio prezioso. La nostra spiritualità può essere molto contemporanea. Ispirandosi a Gesù che ha incarnato la Parola di Dio, i nostri padri parlano di “incorporazione”, esortando a prendere ogni giorno qualcosa di Gesù e farlo proprio. Non ricorrono a un sistema filosofico. Per noi orientali non c’è dualismo: la separazione tra forma e materia, anima e corpo, eredità di Platone e Socrate, è lontana dalla nostra sensibilità. Per noi l’uomo è uno. E da molti punti di vista il linguaggio biblico ed evangelico ci suona familiare. Per esempio il concetto di paternità: qual è il messaggio di Gesù? Che Dio è padre e che dunque gli uomini devono vivere come fratelli e sorelle, senza violenza, senza vendetta. E nella Bibbia si dice che come marito e moglie sono un essere solo, così anche noi cristiani siamo uno con il Signore. Sono tutti concetti vicini alla sensibilità quotidiana orientale, elaborati dai nostri padri nei loro testi che sono omelie intrise di un linguaggio poetico, che parla al cuore e all’immaginazione della gente. Non solo ai nostri fedeli ma anche ai musulmani, che sono molto sensibili ai temi della liberazione, della dignità umana. In Oriente ci mancano invece una teologia sistematica, una metodologia per sviluppare certi concetti. Allora penso che all’interno della Chiesa, che è una, le diverse tradizioni debbano cominciare a scambiarsi reciprocamente le proprie ricchezze, per far fronte alle sfide del presente. In Occidente la secolarizzazione, vuota di valori spirituali, in Oriente soprattutto il fondamentalismo a matrice musulmana, ossessionato dall’interpretazione letterale dei testi sacri».

Qual è la priorità oggi per la Chiesa irachena?

«Aiutare la nostra gente a rimanere in questa terra. Perché io sento che, nonostante tutto, c’è un futuro qui per i cristiani. Anche la libertà religiosa verrà: non oggi, forse non domani, ma verrà. Nessuno può forzare un altro ad aderire a una fede, né la religione può essere un fatto ereditario, bensì una scelta consapevole e libera. E questo è ciò che noi dobbiamo testimoniare qui. Se adesso siamo minoranza, il futuro ci darà ragione: anche il mondo musulmano deve rendersi conto che è necessario operare un aggiornamento dall’interno e aprirsi a una nuova interpretazione dei libri sacri. Se resterà prigioniero di un testo nato nel contesto del settimo secolo, come potrà parlare alla gente con un linguaggio adatto ai tempi, senza prestare il fianco a letture che giustificano la violenza?».

Quale dev’essere il rapporto dei cristiani con la politica? A volte le comunità cristiane mediorientali sono accusate di accettare un “abbraccio mortale” con i dittatori, visti come unica alternativa al rischio di scomparire. Che ne pensa?

«Siamo chiamati ad avere una posizione profetica: di fronte a un male dobbiamo condannarlo apertamente. Un vescovo, un patriarca non devono avere paura di dire la verità, di mettersi accanto alla gente, di offrire una speranza. Noi non siamo politici, non creiamo partiti e non siamo in cerca di un posto di potere, ma, come Gesù, dobbiamo parlare della giustizia, della dignità dell’uomo, dei diritti umani, di uguaglianza e fratellanza: queste sono parole del Vangelo. Poi, il nostro compito è occuparci della vita delle persone, in primo luogo i poveri. Anche nel concreto. Se riceviamo un po’ di denaro, dobbiamo usarlo per coloro che hanno fame, per chi ha bisogno. La Chiesa deve inventarsi iniziative che guardino al futuro, per esempio costruire appartamenti per giovani fidanzati in difficoltà che vorrebbero sposarsi. Come vescovo ho celebrato un matrimonio collettivo, con undici coppie, e a ognuna ho donato mille dollari per aiutarla a incominciare la sua nuova vita. Sono gesti simbolici, non risolvono certo tutti i problemi, però mostrano che la Chiesa è madre e padre, non fa solo discorsi. È quello che ci insegna Papa Francesco, e noi siamo incoraggiati dal suo esempio».

Il documento sulla fratellanza umana, firmato dal Pontefice ad Abu Dhabi insieme al grande imam di al Azhar Al Tayyeb, ha suscitato reazioni nella società irachena?

«Se ne è parlato poco. Serve ancora un impegno alla base per farlo conoscere e cercare di applicarlo alla vita quotidiana dei cittadini. Ciò che invece ha colpito molto del viaggio ad Abu Dhabi è stata la Messa, celebrata dal Santo Padre nello stadio. Per la prima volta, nel mondo arabo, il grande pubblico musulmano ha visto una liturgia cristiana: uomini, donne e bambini che pregavano con grande raccoglimento, e poi la musica, i testi, che sono stati ben scelti… Quella liturgia ha parlato ai musulmani, ha in un certo senso “purificato” il loro sguardo da tanti pregiudizi: c’è chi crede che i cristiani durante le Messe compiano riti magici, chi si chiede che cosa facciano donne e uomini insieme in chiesa, senza la separazione osservata tradizionalmente nel contesto islamico. È stato un messaggio molto forte. Ecco perché anch’io, come patriarca, sono particolarmente attento a questo aspetto: dobbiamo farci conoscere dai musulmani, aiutarli a capire chi siamo e ciò in cui crediamo. Solo questo potrà portare a un cambiamento vero. Per l’Iraq e non solo».