Ponti e non muri per pace e sviluppo

Ponti e non muri per pace e sviluppo

EDITORIALE
A cinquant’anni dalla pubblicazione dell’enciclica di Paolo VI «Populorum Progressio» è chiaro che non è stato fatto a sufficienza per la giustizia internazionale e l’equa distribuzione delle risorse

 

Il 26 marzo 1967, con la pubblicazione dell’enciclica di Paolo VI Populorum Progressio, la questione sociale usciva per la Chiesa dai confini geografici e culturali europei per guardare al mondo intero, nell’epoca postcoloniale e agli albori, per quanto allora inconsapevoli, della globalizzazione. A cinquant’anni di distanza è chiaro che non è stato fatto a sufficienza per la giustizia internazionale e l’equa distribuzione delle risorse. E che troppo pochi sono coloro che, ai livelli alti della politica e dell’economia, hanno fatto proprio l’appello finale dell’enciclica: «Perché, se lo sviluppo è il nuovo nome della pace, chi non vorrebbe cooperarvi con tutte le sue forze?».

Riassumere tutto col concetto di avidità ed egoismo della natura umana, tuttavia, non basta a identificare ed eventualmente correggere le disfunzioni concrete.

Ne elenchiamo cinque, così da evidenziare lo sforzo oggettivamente ciclopico che ancora si pone di fronte all’umanità. Si tratta, infatti, di cause non disgiunte dalla storia dei rapporti internazionali del passato e che vedono nella globalizzazione economica (in precedenza definita neocolonialismo) la prima di esse, là dove senza più esercitare una diretta responsabilità politica e amministrativa, forze esterne continuano a imporre politiche economiche (e sociali), prezzi e regole del commercio e del lavoro.

La corruzione è notoriamente la stampella principale di un sistema di potere che lavora per il profitto invece che per il progresso; un tarlo di cui le leadership locali sono spesso responsabili tanto quanto i potentati internazionali. D’altra parte, la necessità di approvvigionamento energetico e di risorse di prima necessità per la parte di mondo cosiddetta sviluppata è cresciuta a tal punto da rendere la conflittualità armata una condizione permanente dell’umanità. A ciò si aggiunge il crescente senso di insicurezza e di accerchiamento che accentua posizioni rigide e aggressive. Nuove e antiche forme di ideologia, ora anche religiosa, continuano a mettere in questione la natura razionale dell’essere umano. Dopo i muri storici tra est e ovest ne sorgono di nuovi quasi ogni giorno e quasi in ogni direzione.

Solo un nuovo sincero dialogo a tutti i livelli può portare a soluzioni realistiche di pacifica convivenza e comune progresso. Si potrebbero liberare immense risorse dalla fine della deterrenza e dell’aggressione militare e ideologica per investirle nell’istruzione, nella sanità, nell’agricoltura, nella riduzione dell’inquinamento e nello smaltimento in sicurezza dei rifiuti, nella creazione di nuove opportunità di lavoro… È miope la strategia tesa a proteggere i confini e la cittadella dei più fortunati. Anche i nuovi muri un giorno cadranno. Allora si vedrà che i problemi sono ancora lì.

E tutti da risolvere.