Viaggio nella metropoli dell’Amazzonia, cresciuta a un ritmo impressionante negli ultimi decenni. Tra progetti faraonici, condomini blindati e periferie in cerca di una nuova speranza.
Tre chilometri e mezzo di alta ingegneria costati più di un miliardo di reais per congiungere Manaus con la foresta. Lo percorri il Ponte sul Rio Negro e capisci di trovarti sopra a un gigantesco simbolo dell’Amazzonia e delle sue contraddizioni. Da una parte una metropoli che cresce a un ritmo vertiginoso; dall’altra praticamente solo alberi. Per dare un senso a un’opera del genere ci vorrebbero un altro ponte ancora più lungo sul Rio Solimoes e una strada vera di 900 chilometri al posto dell’attuale sterrata piena di buche che arriva a Porto Velho, il collegamento con le strade del resto del Brasile. Ma dove avanzano questi cantieri ai lati arriva sempre anche il latifondo con i campi di soia e di canna da zucchero o i pascoli per il bestiame al posto della foresta. Ne vale davvero la pena per l’Amazzonia? E con quale futuro per i popoli che vi abitano?
Basterebbe forse la sola immagine del ponte per capire perché Papa Francesco abbia deciso di convocare per il prossimo mese di ottobre un Sinodo sulla grande foresta dell’America Latina. Perché Manaus è l’altra faccia dell’Amazzonia: la metropoli di due milioni e mezzo di persone che non si raggiunge via terra, perché circondata dal Rio delle Amazzoni e dalle distese di alberi. Ma dove passi lo stesso in rassegna gli stabilimenti delle grandi multinazionali, venute comunque a produrre qui perché attratte dai vantaggi della zona franca creata dai generali ancora negli anni Settanta, quando facevano il bello e il cattivo tempo in Brasile.
La conoscono bene Manaus i missionari del Pime: per decenni hanno accompagnato la sua esplosione nei quartieri delle periferie, andando ad aprire sempre nuove parrocchie nelle «invasioni», gli appezzamenti di terreno dove si riversano gli immigrati provenienti dai villaggi dell’interno e da tante altre zone povere del Brasile, come il Nord-est. «Quando sono arrivato io qui nel 1967 non arrivavamo a 200 mila abitanti – ricorda mons. Mario Pasqualotto, missionario del Pime trevigiano che è stato anche vescovo ausiliare di Manaus dal 1999 al 2013 -. La nostra parrocchia di Nostra Signora del Nazareno era l’ultima della città, subito fuori cominciava la foresta; oggi invece siamo praticamente in centro. Manaus è arrivata a due milioni e mezzo di abitanti con tutti i problemi sociali che questo comporta. Gli ultimi arrivati sono i venezuelani scesi fin qui dallo Stato di Roraima: li trovi a chiedere l’elemosina. Qualche anno fa era toccato agli haitiani dopo il terremoto, anche se con loro era stato un po’ diverso: si erano dati subito da fare».
È la città del lavoro informale Manaus, dove in molti sopravvivono improvvisandosi commercianti agli incroci o riciclando i cartoni o altri scarti. «È cresciuta senza un piano – continua mons. Pasqualotto – con baracche venute su sui terreni trovati liberi. I governi le chiamano “invasioni”, ma è gente che ha bisogno, non delinquenti. Anche se molti hanno cercato di approfittare dei poveri, gestendo queste irruzioni e magari facendosi anche pagare per terreni non loro. Finché arriva una campagna elettorale e per guadagnare voti il governo di turno mette tutto in regola». E le case popolari? «Le hanno anche costruite – risponde il missionario del Pime – ma molte sono invivibili. Monolocali da sei metri per tre, talmente vicini tra loro da creare situazioni di promiscuità». Molte famiglie che vengono dai villaggi indigeni non ci resistono: preferiscono tornare nelle «invasioni», dove magari almeno hanno un minimo di terra intorno.
Centri commerciali dove trovi qualsiasi cosa e periferie sempre più immense, il benessere portato dalle fabbriche e violenza dilagante: questa è oggi Manaus. Una città che offre lavoro e opportunità, ma anche con tassi da record di famiglie divise e il nuovo business immobiliare del condominio fechado, complessi residenziali recintati con i vigilantes che montano la guardia ai cancelli. «La droga a Manaus è arrivata molto in fretta – spiega mons. Pasqualotto -. Siamo vicini al Perù, alla Colombia, alla Bolivia, ma anche qui nell’Amazzonia brasiliana stanno spuntando piantagioni enormi di coca e marijuana. Girano tonnellate di stupefacenti e questo produce violenza: si ammazza per i soldi di una dose. Le statistiche parlano di una media di quindici assalti al giorno contro le linee dell’autobus: poveri che rubano ad altri poveri, una cosa che non si è mai vista nella storia».
Anche questo è un volto dell’Amazzonia con cui il Sinodo dovrà fare i conti; perché come ha scritto Papa Francesco nell’enciclica Laudato si’, a cui questo grande appuntamento ecclesiale espressamente si ispira, todo esta interligado, la cura del creato è inseparabile dalla cura del fratello. Quando cominci a intaccare l’uno finisci per uccidere anche l’altro. «Il Sinodo non potrà parlare solo degli indios – commenta mons. Pasqualotto – anche la pastorale urbana è una sfida per l’Amazzonia; non dimentichiamo che gli abitanti di Manaus e Belem messi insieme sono molto più della metà della popolazione di tutta la regione».
Gli stessi preti non mancano solo nella foresta, ma anche nelle grandi periferie. «Questo ci ha spinto a responsabilizzare molto i laici – racconta l’ex vescovo ausiliare -. Nelle periferie dove non ci sono chiese abbiamo molti ministri straordinari dell’eucaristia che alla domenica presiedono una liturgia della Parola. Sono poi i laici a preparare al battesimo e a loro abbiamo affidato anche il ministero della consolazione per stare accanto alle persone nel momento del lutto. Perché qui non si celebrano più nemmeno i funerali, vengono in chiesa solo per una Messa di suffragio la settimana dopo». Questa sfida pastorale a Manaus è pungolata anche dalla presenza massiccia delle chiese pentecostali: le si incontra a ogni angolo della città, sulla stessa strada possono essere anche tre o quattro dell’Assemblea di Dio, il gruppo più forte da queste parti. «Hanno centinaia di pastori, una presenza capillare – commenta il missionario del Pime -. Il più delle volte è gente di quel quartiere che ha fatto un corso, magari anche solo su internet». Apre la sua chiesa e vive con le decime raccolte tra i fedeli. Ma è presente lì, in quei posti dove la Chiesa cattolica oggi fatica ad arrivare.
E allora nella grande metropoli la missione non può che guardare a strade nuove. Anche a ottant’anni compiuti, come nel caso di mons. Pasqualotto. Da quando ha lasciato l’incarico di vescovo ausiliare si è buttato anima e corpo nell’impresa della Fazenda da Esperança, la rete di comunità di recupero per tossicodipendenti e alcolisti fondata negli anni Ottanta a Guaratingueta, vicino a San Paolo, dal missionario tedesco frei Hans Stapel e dal laico Nelson Giovanelli. Oggi è un’esperienza diffusa in tutto il Brasile e da vescovo ausiliare Pasqualotto l’ha fortemente promossa a Manaus. Così con padre Pedro Belcredi, anche lui missionario del Pime, il vescovo ausiliare emerito fa la spola con la sede, una grande fattoria che si trova fuori dalla città, ai confini con la foresta.
«Un posto dove chi era scartato ritrova speranza attraverso il lavoro nell’azienda agricola o nel laboratorio di pasticceria.
“Dove due o più sono riuniti nel mio nome io sono in mezzo a loro”, dice il Vangelo. Io oggi lo vedo qui alla Fazenda – ci spiega il vescovo missionario mentre guida per condurci dai suoi amici che provano a uscire dalla morsa della droga -. L’evangelizzazione a Manaus oggi non è un’opera intellettuale, ma esperienza di comunione, scommessa sul vivere insieme». È la vita ritrovata dei giovani che lo aspettano nella grande chiesa a forma di oca, la grande casa col tetto di paglia degli indios brasiliani. Anche dalla loro capacità di generare speranza passa la sfida di un’Amazzonia capace di scegliere davvero una strada più umana per il suo futuro.