Una presenza di prima evangelizzazione, ma anche un presidio di resistenza e dignità in un contesto spesso segnato da discriminazioni e violenze. I molti volti della missione del Pime nel Nord del Paese
«Mon père, sei venuto per partire o per restare?». «Sono venuto per restare». «Allora da questo momento ti chiameremo Koné». Prima ancora di battezzare, padre Romano Stucchi, superiore dei missionari del Pime in Costa d’Avorio, è stato in un certo senso battezzato. Arrivato a Morondo nel 2014, padre Romano, 48 anni di Pessano con Bornago, nel Milanese, è stato accolto così dalla gente del posto. Koné è il nome senoufo della famiglia che è all’origine di Morondo, nel Nord del Paese. E attribuendogli quel nome, hanno accolto padre Romano come uno di loro.
Il senso dell’ospitalità è ancora molto forte in queste regioni di savana a grande maggioranza musulmane nel Nord della Costa d’Avorio, dove oggi si concentrano le missioni del Pime. «L’ospite è sacro – conferma padre Sagar Kumar Peeke, 35 anni, originario dell’Andhra Pradesh, in India, e parroco di Kani -; si è sempre ben accetti, soprattutto nei villaggi, con grande semplicità di cuore».
Il tema dell’accoglienza è centrale nella missione del Pime in questa terra difficile e tormentata, segnata, in questi ultimi anni, da guerra e violenze e da sempre dalla povertà estrema e anche da discriminazioni e sfruttamento; una terra di prima, primissima evangelizzazione, dove tutto va cominciato o ricominciato da zero. Partendo proprio dall’incontro con le persone.
«All’inizio, quando sono arrivato a Morondo, non avevo un posto in cui stare – ricorda padre Romano -; la gente mi ospitava in casa propria. Non c’era niente. Mi ricordava molto l’epoca di san Paolo. Vivevo davvero una dimensione di Chiesa domestica». Era quello che cercava in fondo: una missione tra i non cristiani, il cuore più profondo e autentico della sua vocazione missionaria. «Non potevo chiedere di più – ammette padre Romano -. All’inizio, in termini di cattolici, non c’era niente e nessuno; una manciata di persone. Per un anno ci andavo solo nel weekend. Affittavo una stanza e intanto costruivo la chiesa. Poi, per due anni, ho dormito in sacrestia, finché non è terminata anche la canonica. Morondo è diventata parrocchia nel 2014 con una trentina di cristiani su circa 7 mila abitanti. In quel momento il volto della comunità ha cominciato a cambiare, anche se ho iniziato a viverci stabilmente solo a inizio 2017. Adesso seguo altre 12 cappelle nei dintorni».
Padre Walmir Dos Santos, 35 anni, da poco rientrato in Brasile dopo 6 anni a Kani, rievoca volentieri il percorso di scoperta della fede lungo il quale ha accompagnato una trentina di senoufo: «Gli ho insegnato a fare il segno della croce», ricorda con commozione. Piccoli passi che oggi a Kani, cittadina di quasi 10 mila abitanti, stanno dando frutti abbondanti. In pochi anni, la comunità cristiana è cresciuta e si sono moltiplicate le attività. Oggi ci sono 48 catechisti a Kani e nelle 21 cappelle dei dintorni, in un raggio di circa 80 chilometri; un centinaio di persone sono impegnate in vari gruppi e servizi; c’è un centro culturale con biblioteca che offre corsi di alfabetizzazione e attività estive che coinvolgono un centinaio di bambini. C’è anche una chiesa nuova e grande, benedetta il 7 luglio 2019, anche se sarà completata l’anno prossimo.
Eppure ricominciare a Kani non è stato per nulla facile. Nel 2000 la chiesa era stata data alle fiamme. La tensione era molto alta e per cinque anni non c’è più stato nessun sacerdote. Nel 2005 il Pime se n’è fatto carico con padre Carlos da Silva, raggiunto nel 2006 da padre Stucchi. «All’inizio – ricorda – la gente ci guardava con diffidenza. E un giorno, il capo dei ribelli mi ha sibilato minaccioso: “Sai che la chiesa è stata bruciata; sai che può bruciare ancora”. Poi, per fortuna, la situazione si è rasserenata e oggi c’è un buon rapporto con tutti, dalla gente comune alle autorità sino agli altri leader religiosi».
Tra il 2007 e il 2008, grazie anche al sostegno della Fondazione Pime di Milano, sono stati realizzati alcuni piccoli ma significativi progetti sociali: la costruzione di alcuni pozzi, il rifacimento del tetto della scuola materna e delle mura di cinta, la realizzazione di un parco giochi all’aperto per i bambini… «La gente vedeva che facevamo delle cose per la comunità e non solo per i cristiani e che non chiedevamo niente in cambio. Oggi siamo diventati dei punti di riferimento, sempre nel rispetto della fede dell’altro», precisa padre Romano.
A dare man forte a padre Sagar a Kani sono arrivati recentemente anche padre Rupak Lokhande, 43 anni di Mumbai, psicologo, con una lunga esperienza come rettore dei seminari minore e maggiore del Pime in India; e padre Luca Galimberti, 57 anni, di Erba (CO), con alle spalle un’esperienza di 13 anni in Bangladesh. Entrambi si stanno rimettendo in gioco in una realtà nuova. «Sono sempre stato affascinato dall’Africa – ammette padre Rupak, che è arrivato in Costa d’Avorio nell’agosto del 2019 -, e mi interessa molto poter operare in un contesto multiculturale e di prima evangelizzazione. Anche il mio discernimento spirituale è un po’ in questa linea, ovvero di andare oltre i confini geografici e culturali, e soprattutto oltre pregiudizi e preclusioni, per testimoniare e condividere l’amore di Dio». «Mi piacerebbe trovare vie originali per rispondere ai bisogni, anche spirituali, della gente», gli fa eco padre Luca che per quattro anni ha sperimentato uno stile di presenza missionaria tra gli universitari di Bouaké, cercando di trasmettere «la fede non come qualcosa di astratto o unicamente come esperienza di preghiera, ma come qualcosa che entri in tutti gli aspetti della vita». Padre Luca si dedicherà in particolare alla comunità di Fadjadougou, una ventina di chilometri da Kani, una realtà avviata nel 2014 quasi dal nulla, celebrando la Messa nel cortile di casa di un amico musulmano. Oggi c’è una chiesa tutta nuova e la comunità conta una cinquantina di cristiani più altri sparsi in 9 villaggi.
E proprio nei luoghi più remoti, i missionari del Pime sono un riferimento importante pur nell’estrema essenzialità. Soprattutto nei cosiddetti campement, ovvero negli insediamenti di famiglie in prevalenza mossi, originarie del Burkina Faso, dispersi nel mezzo delle piantagioni di cacao, caffè o anacardi. Che sono ovunque e sono sterminate. E che ormai hanno quasi completamente soppiantato la foresta vergine. La Costa d’Avorio è ancora oggi il principale produttore di cacao al mondo e un importante produttore di caffè e anacardi. Questo grazie soprattutto al lavoro di immigrati che coltivano terre che non sono loro e vengono pagati a prezzi stabiliti altrove; interi nuclei familiari che vivono isolati, che non hanno diritti perché non sono cittadini ivoriani e che spesso vengono sfruttati.
A Petit Koudougou, una trentina di chilometri da Kani, i missionari del Pime hanno costruito con le famiglie delle piantagioni una cappella rudimentale intitolata a san Giuseppe. Ma la celebrazione della Messa è una festa piena di gioia seguita dal pranzo preparato dalle donne in grandi pentoloni e dalle danze della tradizione mossi. C’è tempo anche per un po’ di catechesi, ma è soprattutto un’occasione per sentirsi parte di una comunità e riconosciuti come persone, e non solo come braccia per lavorare la terra. I bambini sono pieni di energia. Anche loro spesso lavorano (cfr. box). La scuola più vicina, del resto, è a dieci chilometri di distanza. «Per i primi due anni – spiega padre Romano – le famiglie cercano di arrangiarsi con qualche maestro improvvisato che sa almeno leggere e scrivere. Poi l’unica alternativa è la scuola a 10 chilometri, che molti non frequentano».
L’isolamento è una delle caratteristiche anche della missione di Ouassadougou, dove padre Dorielson Pinheiro Drago, 35 anni brasiliano, si è fatto carico dell’eredità lasciata da padre Graziano Michielan, trasferito in Camerun come rettore del seminario Pime di Yaoundé. È l’unico ad avere una comunità di cristiani un po’ consistente, circa 500 fedeli, grazie al lavoro fatto per cinquant’anni dai padri della Società delle missioni africane (Sma), che per primi arrivarono in Costa d’Avorio 125 anni fa. Il luogo è remoto, ma la comunità è vivace. Attorno ci sono altri 23 villaggi, in zone ancora più isolate. Con padre Dorielson c’è un altro giovane missionario indiano, padre Krishna Babu Mikkili. Si alternano per coprire le lunghe distanze e raggiungere tutti almeno tre o quattro volte all’anno. E nello stesso tempo per garantire le normali attività pastorali a Ouassadougou, le Messe in almeno due lingue, il baulé la più diffusa nella regione, e il n’gain tipica di questa zona, il catechismo in n’gain e francese, e poi il progetto dell’acqua, il dispensario, i corsi di alfabetizzazione… Insomma, le cose da fare non mancano di certo!
Del resto, l’attenzione per gli ultimi, per i più poveri e abbandonati è sempre andata di pari passo con l’annuncio del Vangelo. Come il progetto pionieristico di accoglienza dei malati mentali che padre Dino Dussin ha sostenuto, accompagnando il lavoro visionario di Grégoire Ahongbonon, considerato il “Basaglia dell’Africa”. Il Centro che attualmente ospita le donne, nel compound dell’ospedale di Bouaké, è un luogo di disperazione e speranza. Specialmente la chiesa, trasformata in ricovero e ricoperta di stuoie con decine di donne adagiate per terra o che vagano senza meta, l’ombra della croce tracciata dalla luce che filtra dalla finestra, che si posa su questi esseri umani che sono, pure loro, l’ombra di se stessi.
Padre Dussin, che è arrivato nell’81, oggi è il decano della missione Pime in Costa d’Avorio, una missione cominciata nel 1973 con padre Gennaro Cardarelli e legata, a quei tempi, ai fidei donum delle diocesi di Gorizia e di Belluno-Feltre.
Dopo una lunga esperienza a Grand Bassam alla periferia di Abidjan, nel Sud del Paese, ora il Pime si concentra nel Centro-nord, con epicentro a Bouaké e varie missioni nei dintorni. Quelle “storiche” di Ananda, Prikro e M’Baiakro, ben avviate e strutturate, sono già state consegnate ai sacerdoti locali,
così come la parrocchia di Sant’Antonio da Padova a Bouaké, dove ancora oggi è ben visibile la memoria di padre Giovanni De Franceschi, a cui è dedicato un cenotafio accanto alla grotta mariana. All’interno della chiesa c’è ancora la Via Crucis con simboli akan ideata da padre Giovanni, che è morto qui nel 2014, dopo aver dedicato la vita allo studio della lingua baulé, alla traduzione di testi biblici e liturgici e, più in generale, all’opera di inculturazione della fede. Un lavoro enorme che oggi viene portato avanti dall’Amorsyca, un’associazione monastica che coinvolge tuttora i due monasteri benedettini di Bouaké, maschile e femminile, e lo stesso padre Dussin.
Suor Rosina, che per molti anni ha lavorato a stretto contatto con padre De Franceschi, ci mostra il pagne – il tessuto tradizionale – con i simboli akan che avevano realizzato insieme con l’idea di «comprendere e far emergere la ricchezza della tradizione per integrarla nel cristianesimo». Un impegno che, in forme diverse, continua a segnare anche oggi la missione del Pime in Costa d’Avorio.