A dieci anni dal sisma, il Paese è scosso da una crisi sociale ed economica drammatica. La testimonianza di Fiammetta Cappellini, responsabile di Fondazione Avsi: «Non possiamo stare a guardare»
«Vorrei dire che il Paese è sull’orlo del baratro, ma probabilmente è già oltre. La situazione è talmente grave e compromessa che nessuno di noi che la conosce potrebbe dire da che parte cominciare per cercare di risolverla». A dieci anni dal terremoto che nel 2010 ha messo in ginocchio Haiti, provocando 230 mila vittime, è questo il bilancio di Fiammetta Cappellini, 46 anni, responsabile dei progetti di Fondazione Avsi ad Haiti e nella Repubblica Dominicana.
Originaria di Treviglio, in provincia di Bergamo, Fiammetta non legge la realtà con lo sguardo di una cooperante di passaggio. Ad Haiti vive da 14 anni, ha sposato un haitiano e ha un figlio, Alessandro, oggi dodicenne. Da Port-au-Prince coordina uno staff di 15 operatori internazionali e 250 haitiani impegnati sia nella capitale con progetti educativi, di prevenzione della violenza e risoluzione dei conflitti, sia nel resto dell’isola con interventi di sviluppo agricolo e sicurezza alimentare. Un’emergenza, quest’ultima, dalle dimensioni drammatiche: si prevede che nel 2020 oltre il 35% degli haitiani non avrà abbastanza di che sfamarsi.
Fiammetta è arrivata ad Haiti nel 2006, subito dopo il matrimonio con Fritz Frederich. «Ho conosciuto mio marito durante un viaggio missionario con la mia parrocchia – spiega -. A febbraio del 2006 ci siamo sposati, e un mese dopo ho iniziato il lavoro con Avsi come esperto socio-educativo nella mediazione dei conflitti fra le bande armate a Port-au-Prince. Dal 2008 sono responsabile dei programmi nel Paese e da tre anni nell’area caraibica, che comprende la Repubblica Dominicana». Laureata in pedagogia e lettere, fra le precedenti esperienze missionarie di Fiammetta c’è anche un’estate con il Pime, appena ventenne, in Costa d’Avorio, con il cammino di Giovani e Missione.
Durante il terremoto che nel 2010 rase al suolo Haiti, la responsabile di Avsi scelse di restare, mentre tutti gli italiani venivano evacuati dalla Farnesina: «Una decisione che non ha nulla di eroico – dice -. Semplicemente non me la sono sentita di lasciare lo staff e le comunità in cui operiamo in un momento simile, avrei perso il senso del mio lavoro. Così abbiamo mandato in Italia dai mei genitori solo Alessandro, che aveva due anni. Tre mesi dopo sono andata a riprenderlo». Fiammetta continua a restare anche oggi, in un Paese che sta vivendo una situazione surreale.
Haiti ha cominciato il 2020 senza un governo, senza Parlamento e senza l’approvazione di un bilancio statale per l’anno a venire. Il Paese è nel caos dal luglio del 2018, quando l’aumento della benzina del 40% e l’inflazione alle stelle hanno infiammato la popolazione, scesa in massa nelle strade a chiedere le dimissioni del presidente Jovenel Moïse. Da mesi non c’è energia elettrica, che ad Haiti viene generata dal carburante. «Questo significa, per esempio, che negli ospedali a volte non si possono operare i pazienti – afferma Cappellini -. La situazione sanitaria è al collasso. Le scorte di farmaci sono esaurite e prima di essere ricoverati bisogna dimostrare di poter pagare tutto: dalle lenzuola alle siringhe per le iniezioni. Le corsie di ospedale sono un girone infernale. I medici non ricevono lo stipendio da mesi: può capitare di morire in un letto ignorati da tutti».
A settembre, a causa dei disordini, l’anno scolastico non è iniziato. I bambini sono rimasti a casa quattro mesi, e a gennaio le lezioni sono riprese a singhiozzo. «Il 90% dell’istruzione ad Haiti è privata – afferma la responsabile di Avsi -. Gli insegnanti statali hanno un livello abbastanza adeguato di formazione, ma hanno due anni di salari non pagati alle spalle. Chi iscrive i figli alla scuola pubblica sa che non impareranno nulla. Gli altri devono pagare e, in mezzo a questa crisi, i soldi per mandare i figli a scuola non ci sono». Fondazione Avsi sta lavorando con Unicef per la distribuzione di kit scolastici in modo che le famiglie siano alleviate e concentrino le risorse sulle rette.
A dieci anni dal terremoto, molti media hanno denunciato l’inefficienza degli aiuti per la ricostruzione, puntando i riflettori sugli sprechi e le contraddizioni della cooperazione internazionale.
Ma è difficile imputare a questo il dramma che Haiti sta vivendo.
«I problemi preesistevano ed erano gravissimi anche prima», afferma Fiammetta. «Lo Stato è malgovernato da decenni, con una classe politica che fa i propri interessi e non ha nessun senso del bene comune. Non sorprende che un Paese così povero, con così poche strutture e infrastrutture, governato in questo modo, con una recessione di questo tipo e che ha ormai affrontato un anno e mezzo di disordini ricorrenti e sempre più gravi, sia in una situazione disperata. Mettere questo sulle spalle della cooperazione, dicendo che la risposta al terremoto finanziata con miliardi di dollari ha cambiato poco la situazione, non mi sembra la lettura corretta. Non si può risolvere la fragilità di un Paese con gli aiuti. Poi della ricostruzione possiamo dire tutto quello che vogliamo, dei soldi che sono spariti, spesi male, del coordinamento inadeguato e scandaloso. Ma la ricostruzione post terremoto è stata fatta, e quello che si vede adesso non è la conseguenza di aiuti inefficaci. La situazione in cui siamo è tutta haitiana e, finché gli haitiani non si prenderanno le proprie responsabilità, non cambierà».
Haiti, in realtà, ha avuto una timida ripresa negli anni successivi al sisma. Il crollo economico è avvenuto in seguito allo scandalo PetroCaribe, che ha scoperchiato una rete di corruzione enorme legata agli aiuti donati dal Venezuela direttamente al governo haitiano, che avrebbe fatto sparire oltre tre miliardi di dollari. «Il Paese importa tutto, fra cui anche i prodotti petroliferi, che erano favoriti dagli accordi con il Venezuela – sottolinea Cappellini -. Il prezzo della benzina era ribassato attraverso gli aiuti. Finiti questi, doveva essere adeguato al mercato. Il problema è che è stato fatto da un giorno all’altro, con un rincaro della benzina del 40%. Questo, insieme allo scandalo emerso, ha innescato le proteste».
«Operare in un contesto di tale insicurezza è molto difficile – afferma Fiammetta -. E non solo per noi: le nostre attività possono diventare pericolose anche per i beneficiari». Anche per questo, la cooperazione ad Haiti si è praticamente dimezzata, da settembre in poi. Molte organizzazioni umanitarie se ne sono andate, e anche i donatori hanno dovuto interrompere alcuni programmi, non avendo un interlocutore istituzionale. Il paradosso è che questo avviene nel momento in cui gli aiuti servirebbero di più. «La scelta di Avsi, molto ponderata, è stata quella di restare aperti e continuare le attività valutando di volta in volta i rischi. Lavoriamo con comunità talmente fragili che ritirarci avrebbe significato abbandonare questa gente al dramma che sta vivendo. Abbiamo incrementato gli interventi per la sicurezza alimentare, rivedendo i nostri progetti in base alle urgenze. Ma ciò che ci addolora di più è che pare che, in questo contesto mondiale così complesso, la crisi haitiana non attiri l’attenzione. Il Paese sta andando alla deriva: siamo stati a guardare la Somalia, il Venezuela… questi Paesi “perduti” non lo sono diventati da un giorno all’altro. Staremo a vedere affondare anche Haiti?».
Un altro fronte sul quale Fondazione Avsi lavora è quello dei migranti. Negli ultimi anni le immigrazioni irregolari nella Repubblica Dominicana sono state all’ordine del giorno, finché il Paese confinante con Haiti ha deciso senza alcun preavviso di cambiare la legge sulla cittadinanza, passando dal diritto di suolo (ius soli) a quello di sangue (ius sanguinis). D’un tratto molti figli di immigrati haitiani sono diventati illegali e senza patria. «Si è cominciato a riportarli indietro, e si tratta di decine di migliaia di persone che qui, spesso, non hanno più nessun legame – spiega Fiammetta -. È una situazione difficilissima. Noi collaboriamo in entrambi i Paesi con il Servizio dei gesuiti per i migranti, che fa un lavoro eccellente».
Durante il terremoto del 2010 i donatori avevano ritenuto impossibile intervenire nell’enorme bidonville di Cité Soleil, in cui vivono 200 mila persone. In mezzo a un’emergenza di così vasta portata bisognava fare delle scelte, e lì era troppo complicato operare. «Quando ci siamo opposti a questa indicazione e sono tornata a Cité Soleil, davanti alla nostra sede distrutta ho trovato un capannello di persone – racconta Fiammetta -. Sconvolta, ho chiesto loro cosa ci facessero lì. E mi hanno risposto: “Sapevamo che non ci avreste abbandonati, che sareste tornati per sapere come stavamo”».
«Se penso al terremoto, ai motivi per cui allora sono restata, è questa scena che mi resta impressa – continua Fiammetta -. Al di là di tutti i ragionamenti, se solo credi nel valore della persona, anche da un punto di vista laico, anche al di là della fede, non puoi non sentire una responsabilità. Per esempio verso i bambini, non solo tuo figlio, ma anche gli altri. Di fronte a questa infanzia abbandonata di Haiti non ci si può tirare indietro. Credere nell’umanità, e che sia possibile costruire un mondo migliore, non è un’utopia se si parte dalla persona, da quella che hai davanti in questo momento. E io ho davanti gli haitiani, questo popolo, questa gente e questo Paese. E sento che è qui che devo restare e che è questo quello che devo fare».
È anche vero che, in un contesto simile, non esistono certezze incrollabili. «Spesso mi chiedo se è giusto che nostro figlio subisca le conseguenze delle nostre decisioni – confida Fiammetta -. Non è accettabile dover tenere blindato un bambino in casa perché è troppo pericoloso uscire, o fargli attraversare le barricate in fiamme per poter andare a scuola. Spesso, con mio marito, abbiamo pensato di mandarlo per un periodo all’estero, perché la vita che possiamo offrirgli qui non è adeguata. In questo momento vogliamo fare un atto di fiducia verso il Paese, aspettando un po’ e vedendo come vanno le cose».