Dirige l’unica struttura specializzata per la cura della lebbra in tutto il Sud del Bangladesh, assiste malati di tubercolosi e Aids. Ma suor Roberta Pignone punta a guarire anche le ferite dell’anima
C’è tutta una missione dentro un letto d’ospedale. C’è la cura per la sofferenza fisica, l’assistenza per chiunque, anche il più povero e solo, l’ascolto della vita intera di chi è sdraiato in quel letto: magari un ragazzino colpito da una tubercolosi resistente ai farmaci con il bisogno disperato di un posto dignitoso in cui essere accolto, o una donna che non ha nemmeno il diritto di essere malata perché il marito o la suocera, a casa, ne reclamano i servigi.
L’ospedale in questione è il Damien Hospital di Khulna, nel Sud del Bangladesh, e la missione è quella di suor Roberta Pignone, medico brianzolo – è nata a Monza 48 anni fa -, missionaria dell’Immacolata dal 2006 e da nove anni nel Paese del Sud-est asiatico. «Il senso della mia presenza? Essere balsamo per le ferite di questi poveri», dice senza esitazione. «Voglio trasmettere loro la tenerezza di Dio, che io per prima ho vissuto».
È una vocazione adulta, quella di suor Roberta. «Ero già medico – racconta – quando decisi di partecipare al Cammino di Giovani e Missione. Fui mandata in Bangladesh e lì mi innamorai di quel Paese e delle missionarie dell’Immacolata: essere tornata, come suora io stessa, proprio dove avevo trovato l’amore mi fa vivere la bellezza di quella promessa di Gesù, quando parla di lasciare tutto per seguirlo».
Il luogo del cuore dell’energica religiosa è la terza più grande città del Bangladesh, adagiata lungo le rive dei fiumi Rupsha e Bhairab (circa 130 km a sud-ovest della capitale Dhaka) nella regione del delta del Gange.
Con il milione e mezzo di abitanti della sua area urbana, questo importante mercato agricolo per la produzione e il commercio di riso e canna da zucchero cerca di adeguarsi all’immagine che il Paese tiene a offrire di sé: realtà dinamica, in crescita, che ha ormai raggiunto lo sviluppo. «Ma si tratta di un’immagine ingannevole: come si può parlare di sviluppo quando ci sono ancora persone che vivono negli slum? Sebbene attorno al porto fluviale di Khulna giri un’economia che crea lavoro e qui non si veda il contrasto spaventoso tipico di Dhaka tra ricche zone residenziali e persone che vivono per la strada, restano importanti sacche di povertà».
Una delle facce di questa povertà è quella che suor Roberta vede quotidianamente nell’ospedale di cui è direttrice dal 2012 e che ha i tratti sfigurati dalla lebbra. «Proprio così. Sebbene l’Oms nel 1998 abbia dichiarato debellato il morbo di Hansen, è importante fare sapere che in Bangladesh, nel 2020, i lebbrosi esistono ancora, e nuovi casi si registrano continuamente. Io ne diagnostico uno a settimana», testimonia la missionaria.
Non è dunque, purtroppo, superata l’intuizione avuta nel 1989 dalla consorella suor Rosa Sozzi, che, dal Nord del Paese dove operava, decise di trasferire anche in questa regione un presidio contro la «malattia dei poveri, della malnutrizione e della sporcizia». Ad aggravare la situazione, oggi, sono proprio l’ignoranza e l’inconsapevolezza sul tema, non solo tra i pazienti ma tra gli stessi medici: «Un povero che manifesta i sintomi del morbo, considerando anche che il tempo di incubazione può arrivare a trent’anni, non sa a che cosa attribuirli, e quando si rivolge al dottore gli viene detto che ha un’allergia o una neuropatia… così si cura nel modo sbagliato per anni e la diagnosi arriva quando è già molto tardi», spiega suor Pignone.
«Insieme alle ong che operano nel settore abbiamo organizzato recentemente un incontro con il primo ministro per sensibilizzare le istituzioni, ma l’impressione è che la lebbra non sia tra le priorità del Paese». Così, anche i pregiudizi restano forti: «Se io mando un malato all’ospedale governativo, non lo ricoverano perché hanno paura di infettarsi…».
L’unica struttura specializzata in tutto il Sud del Bangladesh, dunque, è quella delle missionarie dell’Immacolata, che accoglie pazienti provenienti da villaggi anche a cinque o sei ore di distanza. Non più solo lebbrosi ma dal 2001 anche malati di tubercolosi e, dal 2012, persone co-infette da Tbc e Hiv/Aids. Per il Damien Hospital, che ha 33 posti letto, lavorano tre suore – «con me una consorella locale che gestisce la distribuzione dei farmaci e una indiana che è caposala» – e 38 laici, 28 dei quali operano in realtà sul territorio, in ambulatori locali vicino ai villaggi rurali dei dintorni, visto che Khulna sorge ai confini con la foresta (da qui partono i tour per le Sundarbans, famose per le mangrovie e le tigri del Bengala). Qui somministrano ai pazienti le cure o fanno assistenza a domicilio ai malati di tubercolosi, portando anche cibo o coperte per l’inverno, mentre solo i casi più gravi vengono ricoverati.
Lo staff dell’ospedale è multireligioso: oltre ai cattolici (che nel Paese sono lo 0,3%) ci sono musulmani, come la stragrande maggioranza dei bangladesi, e indù (importante minoranza che si aggira sul 10%).
«Incominciamo la giornata alle 8 con la preghiera, ognuno secondo la propria fede», racconta la religiosa monzese. Che dice: «Oggi si parla molto del dialogo: noi lo pratichiamo quotidianamente». E porta qualche esempio eloquente: «Ci è capitato di organizzare una cerimonia simile a quella tradizionalmente celebrata in Bangladesh quaranta giorni dopo la morte di una persona, con preghiere e poi la condivisione di cibo: abbiamo invitato operatori e amici nella nostra cappella e hanno partecipato. Allo stesso modo, nel 30esimo anniversario della morte di suor Rosa, la fondatrice dell’ospedale, abbiamo celebrato una Messa ed era presente tutto lo staff, insieme ad alcuni pazienti. Soprattutto, al di là delle diverse fedi, condividiamo tutti lo stesso desiderio di prenderci cura il meglio possibile dei nostri pazienti».
È questo, naturalmente, il cuore della missione di suor Roberta. Che si traduce nell’assistenza medica ma anche nella vicinanza umana agli ospiti dell’ospedale. E in particolare alle ospiti. «Le donne ricoverate spesso parlano delle loro condizioni di vita in un contesto dove lo status femminile è assolutamente inferiore rispetto a quello maschile. C’è il marito che si sbarazza della moglie malata o sterile e ne sposa un’altra, quello che le chiede di tornare a casa anche se ha la lebbra o la tubercolosi perché si deve occupare della suocera, ci sono i matrimoni combinati in cui una ragazzina viene fatta sposare a un uomo più anziano che le impone di portare il burqa e non uscire di casa… Fatico ad ascoltare le storie di queste donne senza inquietarmi, sto in silenzio ma dentro mi si accende un fuoco nel sentire quello che sopportano, senza nemmeno rendersi conto che potrebbe esistere una vita diversa… Spesso mi sento dire: “Beh, è normale che sia così, è normale che mio marito mi picchi: sono sua moglie!”… Io cerco di far capire loro che non è così, e mi fa piacere quando vengono apposta a cercarci per parlare con noi, per avere uno sfogo. Ma non è facile cambiare la mentalità dominante. A volte ascolto in silenzio e poi alla sera, in cappella, porto tutto nella preghiera».
Per fortuna, in certe occasioni la percezione di poter fare la differenza è più sensibile. Suor Roberta è particolarmente affezionata alla storia di Emanur, un bambino sieropositivo ricoverato anni fa per Tbc. «Curato una prima volta, era tornato al villaggio dove viveva con i nonni e il fratello maggiore Aminur. Ma la tubercolosi si era ripresentata, resistente ai farmaci, così l’abbiamo ricoverato, insieme al fratello, per un anno e mezzo, premurandoci di avere un insegnante che gli facesse lezione. Io però ho cominciato a chiedermi che cosa avremmo potuto fare per il futuro del ragazzo. Mi dicevo: “Se lo rimando al villaggio, muore”. Proprio in quel momento di smarrimento, ho conosciuto un volontario, Rudy, che gestisce una casa famiglia a Khulna. Gli ho presentato Emanur e gli ho detto: “Dobbiamo dare un futuro a questo bambino!”. E così, da ormai cinque anni, i due fratelli vivono nella struttura di Rudy. Hanno 14 e 24 anni e crescono bene, felici».
Se tutto l’impegno di suor Roberta parte dal suo incontro con Gesù, nella sua quotidianità di questo incontro non può parlare apertamente. «Parlo di Allah, cioè di Dio, ma il mio annuncio del Vangelo lo faccio con la vita. Questi pazienti, che sono gli ultimi della Terra e di cui mai nessuno si prenderà cura, da noi possono trovare una seconda casa, un’assistenza gratuita, sempre. Un malato di lebbra che si sente curato, toccato, cercato – visto che noi gli telefoniamo se non viene ad assumere la terapia – sperimenta una gratuità che interpella, che può anche fare cambiare la mentalità utilitaristica diffusa. Soprattutto, voglio che la mia vita diventi la testimonianza che per tutti c’è una cura, per tutti c’è una speranza».