In vista delle elezioni di fine ottobre, parla il cardinale Jean-Pierre Kutwa: parole dure, ma anche messaggi di responsabilità e speranza
«Parlare ai politici è come gettare acqua sulla schiena di un’anatra. Scivola via». Ama molto esprimersi per metafore il cardinale Jean-Pierre Kutwa, 74 anni, arcivescovo metropolitano di Abidjan. Ma anche quando pronuncia discorsi ufficiali, come nella Giornata mondiale della pace, non le manda certo a dire. In quell’occasione, si era scagliato contro «l’atteggiamento bellicoso di tutti i partiti» ricordando come la Costa d’Avorio «abbia davvero bisogno di politici che siano apostoli della pace e della riconciliazione».
Eminenza, lei è molto severo…
«Assolutamente sì! Lo sono innanzitutto nei miei confronti. Ma poi quando si tratta dei nostri uomini politici allora la situazione è veramente grave. Non si può non essere severi, e questo vale anche per i politici cristiani; talvolta ci chiediamo se siano davvero battezzati».
Mancano ancora parecchi mesi alle elezioni previste per il 31 ottobre, ma già dallo scorso anno la tensione è estremamente alta. Teme nuove violenze?
«Noi vescovi insistiamo già da molto tempo nel chiedere elezioni pacifiche. Ma poi i politici – che pure continuano loro stessi a ribadirlo – fanno gesti che vanno esattamente nella direzione opposta. Per non parlare delle ricorrenti polemiche. Noi continuiamo a pregare perché effettivamente c’è il rischio concreto che ci siano altre violenze. Ma la speranza è l’ultima a morire».
Quella della riconciliazione in effetti è una grande sfida per la Costa d’Avorio, specialmente in questa fase così delicata…
«È una sfida per tutti, per i cittadini così come per i partiti. Ma non è facile. Cerchiamo di parlare ai politici. Ma è come gettare acqua sulla schiena di un’anatra. Scivola via. Noi, però, parliamo lo stesso, non stiamo zitti solo perché non ci ascoltano, altrimenti verremmo meno alla nostra missione. Gesù non ha smesso di parlare perché non lo ascoltavano, anzi! Dobbiamo fare lo stesso».
Come vescovi avete chiesto un cambio generazionale.
«I principali attori politici hanno tutti un’età molto avanzata. C’è un grande bisogno di rinnovamento in tutti i sensi».
Ci saranno influenze esterne?
«Certamente! Ci sono sempre state influenze esterne, a cominciare dalla Francia. Niente di nuovo».
Pare che nel Paese circolino molte armi. È vero?
«Credo proprio di sì. E questo è molto inquietante».
La preoccupano anche gli attacchi jihadisti?
«Molto, anche se su questo piano occorre riconoscere che il governo sta mettendo in campo un grande sforzo per contenerli. I jihadisti però stanno facendo molta pressione…».
La Chiesa cattolica della Costa d’Avorio festeggia quest’anno i 125 anni. Una Chiesa ancora giovane, ma dinamica e riconosciuta. Quali sono i punti di forza e quali di debolezza?
«La gioventù è un nostro punto di forza che garantisce alla Chiesa un grande dinamismo. Inoltre, le comunità cristiane sono molto dedite alla preghiera. Durante le nostre cerimonie, l’eucaristia è davvero una festa di “azione di grazia”. Viviamo profondamente il senso dell’eucaristia. Questa è una grande forza. La debolezza è l’incapacità di uscire da questa sfera per entrare in quella della società. È come se si dicesse: “Signore, con te abbiamo finito qui; ora entriamo in un’altra dimensione”. Questa grande fede non la ritroviamo nella vita quotidiana dei cristiani. Davanti ai grandi problemi che ci troviamo ad affrontare, le posizioni dei cristiani non sono necessariamente determinate dalla loro fede in Cristo».
Si riferisce in particolare ai politici?
«Non necessariamente. Penso all’insieme dei cristiani. Altrimenti avremmo conosciuto una vera riconciliazione dopo la grande crisi che abbiamo vissuto. Una riconciliazione che parte in prima istanza dal cuore delle persone. Io scorgo un’ombra anche nel cuore dei semplici cittadini. Poi, se guardiamo più in alto, allora è una catastrofe».
Che cosa si potrebbe fare perché vita di fede e vita quotidiana si incontrino?
«Serve un grande lavoro di formazione. E poi i cristiani hanno bisogno di vedere che i loro vescovi e i loro preti sono persone di fede davvero impegnate. Quando vedono che nella vita di ogni giorno cercano di testimoniare Cristo, li prendono a esempio. E l’esempio spesso è più eloquente della parola».
Anche le scuole cattoliche sono un ambito di formazione e di testimonianza importanti per la Chiesa ivoriana.
«È un contesto importante anche di evangelizzazione in cui cerchiamo il più possibile di far passare il messaggio di Cristo. Le nostre scuole sono molto apprezzate e riconosciute. Molti ivoriani, sia cristiani che musulmani, sono passati dalle nostre scuole. Per molto tempo, sono state le uniche davvero serie. Oggi ne stanno nascendo molte altre private, anche in ambito musulmano».
L’islam rappresenta una sfida in questo Paese?
«Non necessariamente. Penso che ciascuno debba vivere la sua fede liberamente».
C’è dialogo interreligioso?
«In passato, esisteva un collettivo di religiosi di fedi diverse. Ci si vedeva molto frequentemente per un confronto specialmente sulla situazione politica. Sfortunatamente da circa cinque anni questo collettivo non esiste praticamente più. C’è il Forum delle confessioni religiose a cui però non aderisce una rappresentanza importante del mondo musulmano, il Cosim. Noi leader religiosi che dovremmo guidare la nazione verso l’unità e la riconciliazione ci presentiamo separati. Questo mi fa molto male, perché il Paese, oggi più che mai, avrebbe davvero bisogno di unità».
In questo tempo di grande tensione, sentite la vicinanza e la solidarietà delle Chiese d’Europa?
«La Chiesa cattolica è una grande famiglia. E anche le Chiese d’altrove dovrebbero guardare e pregare per questa nostra difficile situazione. Viviamo con una spada di Damocle sulle nostre teste. Chiunque abbia la possibilità di agire per promuovere la pace e la riconciliazione è il benvenuto. Noi, a volte, ci sentiamo come coloro che cercano nel buio con una torcia senza pile».