Oggi nella Cattedrale di Santa Cruz del Quiché la beatificazione di altri dieci sacerdoti e laici uccisi nel Quiché nel periodo del genocidio. Mentre, a venticinque anni dalla fine del conflitto, povertà e migrazioni continuano a seminare morte
Il Guatemala celebra oggi la beatificazione di un nuovo gruppo di martiri del nostro tempo. Si tratta di padre José Maria Gran Cirera, padre Faustino Villanueva, padre Juan Alonso Fernández, sacerdoti spagnoli della congregazione del Sacro Cuore di Gesù, e di sette laici, tra i quali un ragazzino di 12 anni, i cui decreti sul martirio erano stati promulgati dal Papa nel gennaio 2020 e ora vengono così proposti alla venerazione della Chiesa universale, per la loro fedeltà al Signore, nel servizio e nella difesa dei più poveri.
«Non voglio assolutamente che mi uccidano, ma non sono disposto, per paura, a lasciare questa gente. Una volta di più, ora penso: chi potrà separarci dall’amore di Cristo?». Così padre Juan Fernández scriveva a suo fratello il 28 gennaio 1981. Dopo appena quindici giorni fu catturato, torturato e assassinato con tre colpi di pistola alla testa.
Alcuni anni fa, durante un viaggio in Guatemala, mi sono recata nel Quiché, nella regione montuosa chiamata “triangolo Ixil”; desideravo conoscere quella zona martoriata dalla guerra civile, incontrare i sopravvissuti che ancora portavano profonde ferite sulla loro pelle e nella loro anima, e pregare sulle tombe dei testimoni della fede che lì erano stati assassinati. È stata una sorta di pellegrinaggio nelle pieghe della morte e del dolore, ma anche della resistenza e della speranza di una Chiesa giovane, indigena, fedele fino al dono della vita. Un omaggio alla Chiesa dei martiri, il più conosciuto dei quali era allora il vescovo Juan José Gerardi, assassinato nel 1998 per il prezioso lavoro di recupero della memoria storica.
Nella chiesa di Chajul ricordo una semplice tomba con tre nomi: Domingo, José Maria, Tomas, con il riferimento al Vangelo di Giovanni: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici» (Gv. 15,13). Padre José Maria Gran Cirera fu ucciso insieme al suo sagrestano, Domingo del Barrio Batz, al rientro dopo una visita alle comunità indigene il 4 giugno 1980. Aveva 35 anni. Scriveva dalla sua missione: «Sto riscoprendo il Natale. Gesù è venuto per dare voce e speranza a tutti gli esseri umani, specialmente ai più poveri e delusi dalla vita. Da quando sono tra questa popolazione del Quiché, lo capisco sempre più. La gente mi ha aiutato a vivere la speranza e la gioia che vengono da Gesù».
Mi avevano colpito molto queste parole, ripensando al clima pesantissimo nel quale la popolazione e i missionari vivevano, quando possedere una Bibbia o recitare il rosario significava rischiare la vita. La diocesi di El Quiché aveva pubblicato nel 2003 il libro “Dieron la vida”, che raccoglieva le testimonianze di numerosi cristiani assassinati negli anni terribili vissuti dal Guatemala tra il 1980 e il 1991: catechisti, animatori di comunità, sagrestani, membri dell’Azione Cattolica, promotori di salute, laici impegnati nell’evangelizzazione e nella promozione umana, aiutando il popolo a portare la croce e a tenere viva la fiamma della fede e della speranza.
Di questo grande martirio che cosa resta nel Guatemala di oggi? La gente vive ancora in condizioni di povertà disumana, non sembra essere cambiato molto da quando gli accordi di pace hanno concluso la guerra interna nel 1996. La violenza non è più così evidente, ma è ancora presente nella società. Secondo i dati dell’Unicef il 49,8% dei bambini guatemaltechi soffre di denutrizione cronica, e questo dato fa del Guatemala il primo Paese dell’America Latina (il sesto al mondo) con questo problema; mentre i dati ufficiali del ministero per lo Sviluppo sociale indicano che la povertà interessa oltre il 60% della popolazione.
A novembre, il Centro America è stato interessato dal devastante passaggio di due uragani tropicali, Eta e Iota. Il Guatemala è risultato il Paese più colpito: secondo i calcoli ufficiali ci sono stati oltre 150 dispersi, con il villaggio indigeno di Quejáj completamente cancellato dal fango, alcune valanghe dovute alla furia dell’uragano hanno distrutto ponti e strade, lasciando le comunità a lungo irraggiungibili.
Chi è sopravvissuto ha perso tutto: casa, campi e animali. In un comunicato della Conferenza episcopale, i vescovi hanno presentato la situazione del Paese: «Abbiamo contemplato il dolore di tanti fratelli, le loro sofferenze e pene, i loro sogni distrutti dalla pandemia, i disastri naturali, la povertà crescente, il costante dramma migratorio regionale. Insieme a questi mali, avvertiamo la deplorevole e persistente corruzione amministrativa, la crescente mancanza di fiducia nelle istituzioni e nei suoi funzionari, il cattivo esempio del disinteresse reale per il bene della nostra nazione. Tutto questo suscita incertezza e scoraggiamento nel pensare al futuro che spetta alla maggior parte dei giovani». Di fronte a queste emergenze, i vescovi hanno però evocato anche una nota di speranza: «Allo stesso tempo abbiamo contemplato la testimonianza di generosità e carità cristiana di tante persone nei confronti delle vittime delle tormente tropicali Eta e Iota, e dell’ancora vigente emergenza sanitaria della pandemia».
Il 2020 si è concluso con massicce proteste causate dall’approvazione della legge di Bilancio 2021, represse duramente dalla polizia. Anche i vescovi hanno manifestato preoccupazione per una decisione che causerà l’aumento dell’indebitamento del Paese, con tagli ai programmi sociali e sanitari, compresi ospedali e centri di salute, proprio nel tempo della pandemia:
«L’indebitamento del Paese sta raggiungendo livelli francamente preoccupanti, e il debito di oggi è fame per domani».
«Il Signore si identifica a tal punto con il suo popolo, che qualunque cosa facciamo ai poveri, la facciamo a Lui. A partire dalla nostra opzione preferenziale per i poveri, e in solidarietà con loro, diamo ragione della nostra speranza in Gesù Risorto, perché lo riconosciamo presente nel nostro popolo». Così scrivevano negli anni Ottanta gli operatori pastorali del Quiché, sapendo di essere inviati come agnelli in mezzo ai lupi, secondo l’icona evangelica di Matteo. Parole attuali anche oggi e che si possono riassumere nel motto episcopale di Alvaro Ramazzini, vescovo di Huehuetenango, creato cardinale nel concistoro di ottobre 2019: “¡Ay de mí si no evangelizo!” (“Guai a me se non evangelizzo!”).
Ricevendo la porpora cardinalizia, Ramazzini ha affermato di considerarla un segno dell’amore del Papa per il Guatemala, Paese che ha molto sofferto nella sua storia recente, e soprattutto di ritenerla un’opportunità per dare voce a tante persone dimenticate e povere. Il vescovo di Huehuetenango è conosciuto in Guatemala e in Europa come pastore attento alle situazioni di povertà e ingiustizia e difensore dei diritti umani, a partire dalla Parola di Dio. Uno dei temi che gli stanno particolarmente a cuore è la problematica delle migrazioni, che conosce molto bene per essere stato vescovo per 24 anni a San Marcos, al confine con il Messico. Da tempo impegnato nella difesa dei migranti che cercano una vita dignitosa negli Stati Uniti, Ramazzini ha anche denunciato le condizioni di miseria in cui vivono i contadini guatemaltechi e le ingiustizie sociali di cui sono vittime e che li spingono a partire.
Ripete sempre che conoscere la realtà e la sofferenza dei migranti non lo ha mai lasciato indifferente, perché nei migranti vede la presenza stessa di Gesù e considera la loro tutela come una parte integrante della sua pastorale. Per questo si è anche impegnato con i vescovi del Messico e degli Stati Uniti, chiedendo che la riforma migratoria diventi realtà.
Di fronte al massacro di 19 migranti guatemaltechi, uccisi a colpi di arma da fuoco il 23 gennaio a Taumalipas, in Messico – e i cui corpi sono stati ritrovati carbonizzati – il cardinale Ramazzini, Insieme alla rete Clamor (che raccoglie gli organismi ecclesiali latinoamericani che si occupano di migrazioni), ha espresso dolore e indignazione di fronte a questo nuovo atto di violenza perpetrato da gruppi del crimine organizzato. Nella lettera inviata ai presidenti di Messico e Guatemala e ai ministri degli Esteri dei due Paesi esprime «grande preoccupazione per la situazione di tutti i migranti che attraversano il territorio nazionale messicano, poiché la politica migratoria, e la sua attuale gestione, finora non impediscono ai migranti e ai rifugiati di cadere vittime della criminalità organizzata nel loro tentativo di attraversare il territorio messicano, quando per motivi di povertà e persecuzione cercano di lasciare i Paesi di origine e salvaguardare la loro vita e quella delle loro famiglie».
Come i martiri che presto saranno beatificati non hanno abbandonato la loro missione nemmeno davanti alle minacce delle forze militari e paramilitari, così oggi il cardinale Ramazzini, minacciato di morte nel corso degli anni, porta avanti con coraggio evangelizzazione e denuncia delle ingiustizie. “Guai a me se non evangelizzo!”.