L’inganno afghano

L’inganno afghano

Dopo vent’anni di occupazione, il Paese è tornato nella morsa dei talebani. In un libro Farhad Bitani, ex militare e oggi educatore, spiega che cosa è andato storto: «Si è pensato che bastasse nominare una donna ministro, o giudice, per dire che a Kabul soffiava un’aria nuova. Ci vuol altro per incidere sulla cultura di un popolo. E non si può farlo con la forza». Ne parleremo con lui mercoledì 23 febbraio alle 18,30 in un incontro al Centro Pime di Milano

Un inganno. È questa la parola chiave per raccontare l’intervento occidentale degli ultimi vent’anni in Afghanistan: l’inganno della democrazia, l’inganno delle donne emancipate, l’inganno degli “eroici” mujaheddin che in realtà vivevano dello stesso estremismo e della stessa barbarie dei talebani. Di tutto questo, Farhad Bitani è stato testimone. A 36 anni appena, Bitani ha già vissuto tante vite: bambino cresciuto a Kabul nella ricchezza (e nella familiarità con la violenza) grazie a un padre che al tempo del conflitto con l’Urss era un potente generale del “leone del Panjshir” Massoud; ragazzino ridotto alla fame con l’ascesa dei talebani nel ’96 e ancora capitano dell’esercito afghano dopo l’arrivo della coalizione internazionale nel 2001. E poi studente emigrato in Italia, sopravvissuto a un attentato a Kabul nel 2011, rifugiato e infine – dopo un lungo cammino interiore – educatore impegnato a sensibilizzare i giovani al dialogo tra culture e religioni. Lui che, per tanti anni, si era perfino rifiutato di «stringere la mano a un infedele».

«Non è strano», commenta. «Se a scuola ti insegnano che chi uccide un kafir, un non musulmano, andrà dritto in paradiso, per te sarà normale odiare chi prega un altro Dio». La svolta venne «grazie all’incontro, in Italia, con persone bellissime, che innescò in me un profondo ripensamento sulle mie convinzioni». Oggi, dopo la fine ingloriosa della missione internazionale in Afghanistan, Bitani ha scelto di svelare – nel libro Addio Kabul (Neri Pozza, pp. 192, euro 18) scritto con il giornalista Domenico Quirico e viene presentato il 23 febbraio al Centro Pime di Milano – le troppe bugie che hanno caratterizzato gli ultimi due decenni e l’ipocrisia colpevole dell’Occidente.

Duecento miliardi di dollari spesi, centinaia di migliaia di morti, una sconfitta bruciante e ancora, secondo lei, non abbiamo capito nulla dell’Afghanistan. In cosa consiste l’inganno che denuncia?
«Quando gli Stati Uniti lanciarono la missione Nato in Afghanistan, dichiararono che era per portare la democrazia contro i fondamentalisti, ma fin da subito scelsero di mettere in tutti i ruoli di potere ex criminali di guerra che, durante il conflitto civile, avevano ucciso e torturato, a cominciare dalle diverse fazioni dei mujaheddin, che l’Occidente aveva propagandato come “eroi” della liberazione dai sovietici. Ma questi personaggi, compreso lo stesso Massoud, erano a loro volta estremisti islamici, non avrebbero mai mostrato in pubblico le loro mogli e non avevano alcun interesse per la democrazia».

Però nel Paese sono state tenute delle elezioni…
«Una farsa totale, con partecipazione irrisoria da parte della gente, che nei villaggi veniva portata ai seggi inconsapevole, convinta ad apporre l’impronta del dito sotto un certo nome in cambio di favori al capotribù, e brogli spudorati. Ho visto gli scagnozzi di un importante politico sequestrare le urne con le schede elettorali, tenere quelle con il nome del candidato indicato dagli americani e bruciare le altre. E succedeva di continuo. Questa era la democrazia. E intanto la gente soffriva».

Perché?
«Il 70-80% del denaro speso per l’Afghanistan è finito nelle mani di questi banditi, che pensavano ai propri interessi e non garantivano la sicurezza delle persone comuni. Negli ultimi mesi, a Kabul potevano spararti per la strada per rubarti il cellulare! E nei villaggi le famiglie erano terrorizzate dai capetti mujaheddin che di notte entravano nelle case per violentare le ragazze. La gente non ne poteva più».

È per questo che i talebani, ad agosto, sono avanzati con rapidità impressionante?
«I talebani in questi anni erano tornati a controllare già ampie regioni, grazie all’esasperazione della gente per la corruzione diffusa ma anche per le innumerevoli “vittime collaterali” dei droni americani: quante bombe sono finite su feste di matrimonio nei villaggi, massacrando persone innocenti! E così i sopravvissuti si univano ai talebani, contro gli infedeli».

Ma una parte di popolazione ha beneficiato della presenza internazionale, no?
«Si tratta di una piccola fetta. Quasi tutti i fondi investiti nel Paese sono andati a spese militari: per lo sviluppo, la cultura e l’istruzione restavano le briciole. E poi ci si è concentrati solo sulle città, mentre ad appena venti o trenta chilometri da Kabul non è stata portata nemmeno la luce elettrica. Fuori dai centri non c’erano scuole, erano rimaste le madrase e nessuna donna usciva senza burqa».

E l’emancipazione delle ragazze?
«Purtroppo, un drappello di manifestanti nella capitale non è indice di un cambio di mentalità in un Paese di 39 milioni di abitanti. Si è pensato che bastasse nominare una donna ministro, o giudice, per dire che nel Paese soffiava un’aria nuova, ma gli stessi politici accettavano queste scelte di facciata solo per “accontentare” gli americani. Ci vuol altro per incidere sulla cultura di un popolo. E non si può farlo con la forza».

Oggi lei ha scelto di passare dalle armi all’educazione: perché?
«Proprio perché sono convinto che sia l’unico modo per seminare tolleranza. Vale per l’Afghanistan, dove per insegnarci la matematica ci facevano sommare i kalashnikov, così come per l’Occidente. Io, grazie all’incontro con la cultura europea, ho conosciuto la mia vera identità, lo stesso potrà capitare a un giovane italiano che dialoga con me».

 

 

Il 23 febbraio alle 18,30 la serata al Centro Pime con Farhad Bitani. Ingresso libero con Green Pass. In collaborazione con il Centro culturale di Milano e Neri Pozza.