I media non ne parlano più, ma la situazione nel Paese peggiora di giorno in giorno. Il Pime ha aperto un Fondo di emergenza per sostenere le realtà cristiane che stanno accogliendo decine di migliaia di sfollati
È passato più di un anno dal colpo di Stato che, il 1° febbraio 2021, ha gettato nuovamente il Myanmar – ex Birmania – nell’incubo della dittatura militare. Nel Paese, indipendente dal 1948, la dittatura ha occupato complessivamente oltre cinquant’anni di storia moderna: dal 1962 al 2015. In quell’anno le prime vere elezioni democratiche, seguite dall’insediamento a marzo 2016 del primo governo democratico presieduto da Aung San Suu Kyi, avevano fatto sperare nell’inizio di una nuova fase storica, proiettata verso la libertà.
Purtroppo l’esperienza di democrazia è durata poco. Il 1° febbraio dell’anno scorso, nel giorno in cui il nuovo governo eletto a novembre 2020 si sarebbe dovuto insediare, i militari hanno organizzato l’ennesimo golpe, imponendo un esecutivo a prevalenza militare e arrestando nuovamente Aung San Suu Kyi e i principali leader del suo partito.
Il seguito lo sappiamo. La gente scende in piazza in modo pacifico, i militari iniziano a rispondere alle manifestazioni con sempre maggior violenza. Si contano centinaia di morti e di arresti. E la violenza genera violenza, le proteste pacifiche presto lasciano il passo a scontri sempre più violenti.
Anche se ormai di Myanmar non si parla più, la situazione sta peggiorando di giorno in giorno. Attualmente il Paese vive una situazione che potremmo definire di guerra civile, con intere città sotto assedio. Il risultato è un esodo dai luoghi colpiti dai conflitti armati: gli sfollati aumentano di circa 10-15 mila unità ogni settimana.
La città di Loikaw, a cui il Pime è molto legato, è al centro di intensi combattimenti tra gruppi che si oppongono ai militari e alle forze armate. Molte case sono state distrutte, i civili obbligati a fuggire. Loikaw è ormai una città fantasma: dei suoi quasi 70 mila abitanti almeno 60 mila si sono spostati nei vicini centri di Taungoo e Taunggyi, o hanno varcato il confine con la Thailandia.
Nel solo Stato Kayah si conta che circa 2/3 della popolazione abbiamo dovuto abbandonare la propria abitazione. Alcuni si dirigono verso altre città, qualcuno si rifugia temporaneamente nelle foreste. In comune il fatto che hanno dovuto abbandonare tutto, e si trovano a mani vuote.
Il massiccio e inaspettato arrivo di sfollati ha portato diverse realtà cristiane ad aprirsi all’accoglienza delle famiglie costrette a fuggire dai loro villaggi. Nel giro di pochi giorni si è creata una vera e propria catena di solidarietà. Conventi, seminari e parrocchie hanno aperto le proprie porte, offrendo un tetto a migliaia di sfollati. Quando mancano le strutture, ci si è attrezzati per costruire tende o misere baracche, rifugi provvisori che pur nella loro precarietà danno una risposta a bisogni urgenti.
Ma nessuna di queste realtà ha personale adeguato né abbastanza risorse per gestire l’accoglienza e per soddisfare i bisogni delle famiglie, a partire da quelli primari: cibo, coperte e medicinali.
Nella città di Taunggyi la Caritas locale ha provato ad avviare la registrazione degli arrivi e il coordinamento dell’ospitalità, ma ha dovuto rinunciare per via dell’elevato numero di sfollati. In questi giorni tantissime realtà ci stanno contattando per chiedere un supporto. Ci raccontano che stanno finendo le scorte di cibo, che vivono alla giornata e che non sanno per quanti giorni ancora saranno in grado di resistere. Ci parlano di famiglie, spesso con bambini piccoli, che sono arrivate da loro dopo lunghe settimane di viaggio attraverso le foreste, stremate e in condizioni di povertà estrema.
Di fronte a questa situazione la Fondazione Pime ha deciso di aprire il Fondo S145 Emergenza Myanmar, per sostenere le iniziative delle Chiese locali, molte delle quali fondate proprio dai missionari del Pime prima dell’espulsione dei religiosi stranieri nel 1966.
È a loro che invieremo aiuti, partendo dai bisogni elementari delle persone: un tetto, il cibo, le cure mediche, una scuola per i più piccoli, che da due anni ormai – tra pandemia e guerra – non la frequentano più. MM