Con il Piano Mattei e il Summit di Roma, l’Italia cerca di riaprire un canale di collaborazione con il continente. Ma qual è la visione dell’Africa sul nostro Paese? Quali prospettive per un rapporto davvero paritario? Ne parliamo con lo storico Uoldelul Chelati Dirar. Ascoltalo anche in podcast
L o scorso 28-29 gennaio si è tenuto a Roma il summit Italia-Africa alla presenza di 25 capi di Stato e di governo del continente e dei vertici dell’Unione Europea. Un’occasione per delineare una “piattaforma programmatica” che dovrebbe rilanciare l’impegno e la collaborazione del nostro Paese con le nazioni africane. Già il punto di partenza, tuttavia, mostra una sproporzione tra un piccolo Paese come l’Italia e un grande continente composto da 54 nazioni e 1 miliardo e mezzo di persone. Ma era evidente anche una distorsione, peraltro messa in luce esplicitamente dai vertici dell’Unione Africana che hanno dichiarato di non essere stati neppure consultati in fase di preparazione.
Lo sguardo, insomma – nonostante qualche tentativo di smentita e di “aggiustamento” – era sostanzialmente unidirezionale, dall’Italia verso l’Africa. Un aspetto che non solo i leader politici, ma anche le Organizzazioni della società civile africana (Cso), hanno rimarcato con severità: «Basta approcci neocoloniali dei Paesi europei: occorre reimpostare le relazioni Europa-Africa e porre fine alle azioni dei Paesi del Nord globale che pretendono di stabilire piani per l’Africa».
Forse allora bisognerebbe provare a capovolgere lo sguardo e a guardare l’Italia dalla prospettiva dell’Africa. Un esercizio – anche questo – che implica necessarie generalizzazioni, ma che può aiutare a situare meglio il nostro Paese sia nella dimensione geopolitica ed economica africana, sia nell’immaginario degli africani. Lo facciamo con il professore Uoldelul Chelati Dirar, docente di Storia e istituzioni dell’Africa all’Università di Macerata, esperto di colonialismo specialmente nel Corno d’Africa, e dunque in grado di aggiungere un’altra dimensione sempre troppo trascurata, quella della profondità storica.
Professor Chelati Dirar, come è vista oggi l’Italia in Africa?
«Complessivamente, direi che non è del tutto negativa. Il “Made in Italy” continua ad avere un certo appeal. E anche il settore imprenditoriale ha una sua credibilità, per le grandi opere ma non solo. Negli ultimi 15-20 anni ci sono stati tanti investimenti, ad esempio, di imprese legate al settore tessile e manifatturiero, che creano posti di lavoro, anche se spesso si tratta di manodopera a basso costo, e in Paesi, come l’Etiopia, che applicano politiche fiscali molto favorevoli».
Il Piano Mattei, tuttavia, sembra avere due principali priorità: approvvigionamento energetico e controllo dei flussi migratori…
«Qualcuno l’ha sintetizzato nella formula “più gas meno migranti”, che trovo piuttosto efficace. In effetti, queste due priorità sono emerse in modo forte, nonostante gli artifici retorici con cui è stato presentato questo Piano di cui, in realtà, si sa ancora molto poco. La sostanza però è la stessa. E non è di oggi. È una tendenza che si è consolidata ormai da una decina d’anni e che, con lo scoppio della guerra in Ucraina, è diventata di ancora più urgente attualità. Per il momento, tuttavia, il Piano Mattei mi sembra più una dichiarazione di intenti con poca sostanza».
A proposito di retorica: si è insistito molto sulla creazione di rapporti paritari, non predatori o paternalistici.
«La cosa che a me è parsa più evidente – e forse non adeguatamente rimarcata – è il fatto che si continui a usare un tipo di narrazione di stampo coloniale. Una narrazione chiaramente paternalistica nel momento stesso in cui nega di esserlo. Un vizio di forma, ma anche di sostanza. Come è possibile costruire un rapporto paritario se l’agenda e le priorità non sono state decise insieme sin dall’inizio? Io vi vedo la riproposizione di uno schema che rimane profondamente paternalistico».
Anche la formula “una nazione-un continente” lo è.
«Certo. Come è possibile invitare un intero continente “a corte” e poi pretendere di fare scambi paritari? Peraltro è un’idea un po’ pretenziosa: molti degli obiettivi individuati non sono perseguibili su base nazionale. Dovrebbero essere condivisi almeno a livello dell’Unione Europea, che era rappresentata ad alti livelli al summit, senza però che emergesse la volontà di un forte impegno finanziario. Questo vale sia per l’Ue che per l’Italia stessa, che ha messo sul piatto 5,5 miliardi, una cifra inadeguata se si vuole essere presenti in maniera significativa in Africa».
Nel continente peraltro ci sono altri attori che si sono imposti in maniera ben più strutturata in questi anni…
«Penso che l’Italia, soprattutto nel Mediterraneo, possa e debba giocare un ruolo importante, anche se rischia di entrare in rotta di collisione con altri Paesi come la Francia. Ma inserirsi in questo “gioco” su scala continentale ha una serie di implicazioni. E richiede, appunto, investimenti significativi a molti livelli, altrimenti si rischia di fare interventi estemporanei con scarso impatto. Altre nazioni, come la Cina ormai da molti anni, o la Turchia stanno consolidando la loro presenza: una presenza strutturale e coordinata su diversi scenari, dal Nordafrica all’Africa orientale e non solo, attraverso investimenti, costruzione di infrastrutture, cooperazione allo sviluppo, interventi umanitari e una politica massiccia di borse di studio che è un altro modo di tessere relazioni anche in prospettiva futura».
Ma è possibile guardare al futuro senza aver fatto i conti con il passato coloniale?
«Sì e no. La memoria è spesso un po’ corta. E questo da entrambe le parti. I vari governi italiani si sono differenziati molto poco almeno sulle dichiarazioni di principio. E, come dicevo, su una certa retorica per cui gli italiani sono diversi dagli altri, non hanno trascorsi coloniali paragonabili a quelli della Francia e della Gran Bretagna, e dunque hanno tutte le “qualifiche” per aiutare l’Africa. Ma questo è un discorso insopportabilmente coloniale e che viene percepito come tale in Africa. C’è una sensibilità sotto stimata non solo in Italia, ma anche in Europa, dove spesso si continuano a ripetere o a far riemergere discorsi e luoghi comuni che in Africa vengono recepiti molto male».
Ma quanto interessa all’Africa il Piano Mattei?
«La mia impressione è che le varie delegazioni che sono venute a Roma – non tutte di alto livello e con alcune importanti defezioni come Nigeria ed Egitto – si siano presentate con un misto di disincanto e di aspettativa. Ci sono interessi e bisogni reciproci, questo è chiaro. Ma forse bisognava metterli maggiormente in relazione prima, facendo ad esempio dialogare il Piano Mattei con l’Agenda 2063 dell’Unione Africana, in cui il continente si è dato priorità e obiettivi sul lungo periodo. Lo stesso nome Piano Mattei – che può essere evocativo in Nordafrica – nel resto del continente non dice nulla se non un richiamo immediato agli idrocarburi. Ma a mio avviso, occorrerebbe guardare un po’ oltre anche in questo ambito specifico, in Italia come in Africa. Del resto, ci sono già molti e interessanti progetti legati, ad esempio, alla produzione di energie alternative. L’attenzione ai temi ambientali andrebbe sviluppata molto di più».