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A scuola incontriamo la nuova Hong Kong

Il Collegio Papa Paolo VI, nato nel 1969 per dare un’istruzione alle ragazze più povere, oggi affronta sfide inedite. Il racconto di suor Marinei Pessanha Alves

Se i rivolgimenti politici e sociali hanno trasformato in pochi anni il volto di Hong Kong, ex colonia britannica che oggi Pechino sta riportando sotto la propria ala, la scuola secondaria per ragazze fondata nel 1969 dalle Missionarie dell’Immacolata nel quartiere di Shek Lei, nei Nuovi Territori della grande città, resta un punto di riferimento per l’educazione di centinaia di giovani, grazie alla capacità di adattarsi alle sfide inedite del contesto. «A cominciare dall’arrivo di molte nuove allieve provenienti dalla Cina continentale», esordisce suor Marinei Pessanha Alves, originaria di San Paolo in Brasile, che da cinque anni è la supervisor del Collegio Papa Paolo VI nato all’inizio della missione delle religiose a Hong Kong.

«Allora i Nuovi Territori, tra cui il distretto di Tsuen Wan, erano le aree più povere della città e le ragazze non avevano l’opportunità di andare a scuola: se le famiglie potevano fare studiare un figlio, sceglievano il maschio», racconta suor Marinei, giunta qui per la prima volta nel 1989 (e rimasta fino a oggi, con una lunga interruzione di tredici anni trascorsi a Roma, dove nel 2006 era stata eletta consigliera generale dell’Istituto). «Da lì la scelta di offrire una chance proprio a quelle figlie sacrificate, che mentre i genitori lavoravano nelle fabbriche rimanevano a casa a curare i fratellini».

Le settecento allieve, tra i 12 e i 18 anni, che frequentano oggi il Collegio hanno storie molto diverse da quei primi tempi: «Le famiglie ci scelgono per la qualità del nostro insegnamento e soprattutto per i valori morali che veicoliamo attraverso le attività quotidiane, senza bisogno di fare proselitismo», spiega l’energica suora brasiliana. «Anche se le studentesse in larga maggioranza non sono cristiane, da noi ogni mattina inizia con una preghiera ispirata a temi universali come quelli al centro delle giornate mondiali delle Nazioni Unite, o quelli che ci vengono proposti dall’attualità, globale o locale. E poi si cerca di vivere con positività le relazioni e di testimoniare la bellezza della convivenza». Anche perché, a fianco delle ragazze cinesi, ai banchi siedono diverse giovani provenienti dal Pakistan – in questo quartiere i pakistani sono numerosi, impiegati nell’edilizia e nel commercio -, ma anche da India, Thai­landia, Filippine, Nepal… «I genitori musulmani spesso ci scelgono perché la nostra è una scuola femminile, ma questa vicinanza con l’islam si trasforma in un’opportunità preziosa di testimonianza».

Di recente, il nuovo volto della scuola – in un contesto già segnato dal bassissimo tasso di nascite e dal conseguente calo della popolazione – è stato determinato soprattutto dalla congiuntura politica e sociale della ex colonia britannica, che ha visto molte famiglie locali abbandonare la patria, in particolare in favore della Gran Bretagna. «Allo stes­so tempo, però – racconta suor Marinei -, numerose altre sono arrivate qui dalla Cina interna, attratte da migliori opportunità di vita e da un ottimo sistema scolastico, con un alto livello di insegnamento dell’inglese e classi meno numerose. E così, anche noi abbiamo aperto le porte a diverse nuove ragazze». Giovani spesso reduci da un importante sforzo di integrazione, compiuto negli anni delle elementari, in un contesto culturale ma anche linguistico diverso, visto che a Hong Kong le scuole usano il cantonese, non il mandarino.

La sfida educativa più urgente, tuttavia, non è legata alla sfera strettamente didattica: «Il problema principale è l’enorme fragilità che riscontriamo tra i giovani, spesso provenienti da famiglie con situazioni di vulnerabilità – racconta la supervisor -. La si vede nell’incapacità di affrontare le prove e gli esami e nella paura di fallire, in una società estremamente competitiva. Ma anche nella fatica a gestire le proprie emozioni e nelle difficoltà relazionali, in parte eredità del periodo di pandemia: qui la tecnologia ha permesso di portare avanti le lezioni a distanza, ma quando si è trattato di tornare a incontrarsi in presenza, e non virtualmente, i nodi sono venuti al pettine». La religiosa porta un esempio emblematico: «Molte ragazze, oggi, faticano a togliere la mascherina, anche quando non c’è alcuna necessità di indossarla: preferiscono tenere il viso coperto perché sono a disagio con il proprio aspetto o si sentono più “protette”…».

Così, suor Marinei ha pensato di affiancare agli strumenti di counseling e di assistenza psicologica e psichiatrica alcuni momenti ad hoc per condividere con le allieve l’esempio di alcune figure legate al carisma delle Missionarie dell’Immacolata: «Tra queste Giuseppina Rodolfi, una delle nostre fondatrici, che nonostante da ragazza fosse molto timida ha saputo perseguire i suoi sogni».

La missione, insomma, ha un messaggio da offrire anche in questa nuova Hong Kong? La suora brasiliana ne è convinta: «Le occasioni di evangelizzazione sono tantissime. Penso anche al fatto che noi missionari abbiamo sempre avuto il desiderio di essere in Cina, e adesso la Cina è anche qui! Dob­biamo rispondere a questa realtà, imparare il mandarino, essere vicini ai nuovi venuti, anche nelle difficoltà pratiche». Per esempio, quelle di chi vive nei subdivided flat, appartamenti minuscoli dove ci sta a malapena il letto: «La Caritas ha creato degli spazi, a disposizione soprattutto di donne e bambini, per incontrarsi, fare i compiti, lavare la biancheria, cucinare… E si organizzano tante iniziative insieme. Io tra l’altro faccio lezione di cantonese e inglese alle donne. Sono tutte occasioni per creare relazioni, per aprirci alla nuova realtà che ci troviamo di fronte».

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