Ero l’uomo della guerra

Per vent’anni Vito Alfieri Fontana è stato un produttore di mine, finché una domanda a bruciapelo di suo figlio lo ha spinto a cambiare fronte e lo ha portato fin nei Balcani, come sminatore. «I conflitti? Sono la via più facile, la pace va scelta». Guarda anche la puntata di FINIS TERRAE
Nella sua vita, Vito Alfieri Fontana ha prodotto sette milioni e mezzo di mine: due milioni e mezzo per l’esportazione e altri cinque per l’esercito italiano. Impossibile calcolare esattamente quante abbiano ucciso o menomato per sempre dei civili, e quante siano scoppiate tra le mani di bambini che le avevano scorte, con i loro colori vividi, in qualche campo dove stavano giocando. Sappiamo però che, come ha calcolato l’ultimo rapporto della Campagna internazionale per la messa al bando delle mine antiuomo (Icbl), delle 5.757 persone uccise o ferite nel 2023 da queste armi l’84% non indossava un’uniforme, e un terzo era minorenne.
«Quando si avvicina la fine di una guerra, le mine diventano uno strumento di vendetta: io mi ritiro, ma tu che occuperai questo territorio passerai le pene dell’inferno»: oggi Alfieri Fontana, ingegnere pugliese, ha molto chiari i meccanismi legati all’utilizzo di quelli che erano i prodotti di punta della Tecnovar, l’azienda di famiglia di cui è stato titolare per due decenni. Ma nel periodo d’oro del suo business, quando l’impresa con sede a Bari aveva oltre trecento dipendenti e otteneva regolarmente grandi commesse anche dal ministero della Difesa italiano, l’imprenditore tendeva a non farsi troppe domande sugli “effetti collaterali” di un commercio fiorente. E stampava cataloghi patinati in cui illustrava le innovative doti tecniche delle sue bombe a mano, mine anticarro e – appunto – mine antiuomo. Senonché, un pomeriggio, suo figlio Ludovico, che allora aveva otto anni, trovò un mazzo di questi dépliant sul sedile posteriore dell’auto di papà e, incuriosito, gli chiese che cosa fossero gli oggetti pubblicizzati. «Voleva sapere che cosa fossero le mine, e io – stupido! – glielo spiegai, pensando che ne avrei fatto un uomo», racconta oggi Vito Alfieri Fontana. «Ma alla fine delle mie delucidazioni, lui mi disse: “Ah, allora sei un assassino!”. E lo disse come se fossi il personaggio di uno dei suoi videogiochi… Ci stetti male».
Quella domanda avrebbe rappresentato solo l’inizio di un lungo percorso di ripensamento, destinato a rivoluzionare l’intera vita dell’imprenditore. Erano gli anni in cui cresceva un movimento di sensibilizzazione sugli effetti nefasti della diffusione delle mine nei più diversi teatri di guerra, dai Balcani sprofondati nella violenza dopo il crollo della ex Jugoslavia fino all’Afghanistan in preda agli scontri tra fazioni. Alfieri Fontana, in quanto leader nella produzione di quel tipo di ordigni, finì più volte al centro delle accuse degli attivisti e fu toccato dai richiami di personalità come don Tonino Bello, vescovo di Molfetta e presidente di Pax Christi, ma anche del fondatore di Emergency Gino Strada: «Mi telefonò per chiedermi se fossi consapevole del “macello” causato dai miei prodotti», ricorda l’ingegnere.
Strada fu anche tra i primi a spingere il titolare della Tecnovar a cambiare fronte e unirsi alla Campagna per la messa a bando delle mine antiuomo. Un passaggio che, pian piano, Vito avrebbe fatto, anche grazie alla tenacia di Nicoletta Dentico, coordinatrice in Italia di quella Campagna: «Ogni settimana mi telefonava per farmi pressione», racconta. Quando, infine, maturò la decisione di dire basta con una produzione che la sua coscienza non poteva più tollerare, restava però un ostacolo importante: affrontare il padre, decano dell’azienda: «La ditta era la sua creatura e non ci voleva rinunciare. Su questo argomento tra noi c’era uno scontro, nonostante il rispetto reciproco. Il punto di rottura fu quando mi arrivò una telefonata del direttore di una fabbrica egiziana con la quale lavoravamo, che mi disse: “Senta Alfieri, oggi mi deve dare una risposta, ho una commessa di 600 mila mine, non tergiversiamo, sì o no?”. Ero in ufficio insieme a mio padre, che stava con la testa bassa. Mi guardò e mi disse: “Allora?”. Risposi no». Il tempo necessario a fare partire le procedure burocratiche e ricollocare i dipendenti, e la Tecnovar chiuse i battenti per sempre.
Ormai pronto a iniziare la sua “seconda vita”, Alfieri Fontana accompagnò anche, come consulente esperto, gli attivisti a Oslo – era il 1997 – per la conferenza conclusiva a cui parteciparono i rappresentanti di 88 Paesi firmatari della legge che vietava la produzione di mine antiuomo. Lì incontrò tra l’altro la statunitense Jody Williams, che avrebbe poi ricevuto il Nobel per la pace, ma anche un ex ufficiale dell’esercito britannico: giovane, bellissimo, ma senza un braccio e parte di una gamba, che aveva perso durante uno sminamento in Cambogia. «Quando ti rendi conto del male che hai provocato, anche involontariamente, quel tarlo comincia a tormentarti e non ti lascia più». È in quel periodo che l’ex imprenditore matura una scelta ancora più radicale: non solo smettere di produrre strumenti di morte, ma impegnarsi attivamente per ridare opportunità di vita.
«Cominciai a informarmi sulle ong attive nella bonifica di aree di conflitto e due anni dopo iniziai a lavorare con Intersos come direttore delle operazioni di sminamento nei Balcani. Dal 1999 fino al 2017 ho operato in Kosovo, Serbia e poi Bosnia Erzegovina, dove sono rimasto per 15 anni. Se in tempo di guerra le mine causano orribili menomazioni e morte, in tempo di pace rappresentano una tortura a lungo termine, perché i civili che tornano le trovano nei campi da arare, dentro le fabbriche, nelle scuole, ma anche nelle case… inimmaginabile!». Vito ricorda: «C’erano trappole esplosive nascoste nei quadri elettrici, all’apertura delle porte, dentro le stufe a legna: se una persona accendeva la stufa, dopo una decina di minuti la bomba scoppiava a causa del calore. Quando queste zone cominciano a ripopolarsi, quindi, il primo problema è proprio mettere in guardia la popolazione, specialmente i bambini, che per la loro statura e la loro curiosità vengono facilmente attratti da questi ordigni di colori vivaci, che richiamano l’attenzione. Per fortuna, devo dire che i programmi sono efficaci e i piccoli imparano in fretta, trasmettendo poi i messaggi di prudenza anche in casa».
Ma qual è la situazione oggi sul fronte dell’utilizzo di mine antiuomo? «Esistono trattati internazionali che mettono al bando la maggior parte degli ordigni esplosivi – mine, bombe cluster, dispositivi trappola – ma si tratta di accordi basati sull’onore, su una spinta morale dei governi a dire basta a questo tipo di armamenti – spiega Alfieri Fontana – e oggi purtroppo in molti si stanno rimangiando la parola data». E così ordigni vietati finiscono in Ucraina – Kiev ha fatto un’eccezione al Trattato di Ottawa, mentre Mosca non l’aveva mai firmato, come peraltro gli Usa -, Myanmar, Corea del Nord… «E chissà quanti saranno stati piazzati a Gaza», commenta l’ingegnere pugliese, che ha raccontato la sua storia nel libro Ero l’uomo della guerra, scritto con Antonio Sanfrancesco (Laterza).
Se gli si chiede che cosa ne pensa dell’attuale corsa globale al riarmo, anche qui in Europa, dopo tanti sforzi per investire invece in una diplomazia efficace, l’ex imprenditore senza scrupoli riflette: «La pace bisogna volerla. In mezzo a una politica piena di incertezze, i militari sembrano quelli con le idee più chiare e con le soluzioni più semplici, e che cosa può chiedere un militare se non armi? Ma è la classica strada in discesa verso l’inferno, mentre la pace richiede di mettere insieme le parti in conflitto e spingerle a trovare un punto d’intesa anche sul futuro: come ricostruire le zone distrutte, come fare ripartire l’economia… È difficile, richiede buona volontà. Ma è l’unica via. Di fronte al disastro globale a cui stiamo assistendo, dovremmo ricordarci un semplice insegnamento che ritroviamo in quasi tutte le religioni: “Non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te”».
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