La bambina dell’isola che sognava la missione

La bambina dell’isola che sognava la missione

Nata in un villaggio della Papua Nuova Guinea, suor Elsie Isikeli decise da piccola che avrebbe speso la vita per il Vangelo: una scelta per cui ha lottato e sofferto. Ma ora è in partenza per il Bangladesh

 

La missione, per definizione, è universale e spesso si diverte a mischiare le carte della geografia, dell’appartenenza sociale e delle storie personali per inventare nuove opportunità di annuncio del Vangelo. Può capitare, così, che una bambina nata in un piccolo villaggio su un’isola della Papua Nuova Guinea e cresciuta secondo i ritmi dettati da una natura preponderante decida di diventare una missionaria dell’Immacolata. E affronti un lungo cammino, fuori e dentro se stessa, per abbracciare una dimensione nuova senza perdere le proprie radici.

Tutto questo è capitato a suor Elsie Isikeli, nata il 12 settembre del 1985 in un villaggio nel Sud dell’isola di Normanby, non lontano da Alotau, e che oggi si appresta a iniziare la sua missione in Bangladesh, dopo uno stop imprevisto dovuto al contagio da Covid-19, che l’ha sorpresa mentre era di passaggio a Monza… «Ora però, grazie a Dio, sto bene e non vedo l’ora di buttarmi in questa nuova avventura», afferma, confidando che all’inizio questa battuta d’arresto l’aveva un po’ scoraggiata. Ma presto ha recuperato il senso dell’umorismo per cui è nota tra le sue consorelle.

Suor Elsie è entrata in convento giovanissima, a diciassette anni, eppure aveva già messo alla prova, anche con sofferenza, la consapevolezza e la solidità della sua vocazione. «Sono la prima di otto figli, cinque maschi e tre femmine», racconta. Una famiglia come tante al villaggio, dove ognuno aveva il suo pezzo di terra da coltivare e per questo le case erano separate l’una dall’altra da ampie distese di campi. «Per raggiungere le abitazioni dei vicini dovevamo camminare anche un paio d’ore!», ricorda la religiosa. Ogni nucleo famigliare, dunque, era piuttosto isolato, «anche se ogni tanto venivano a trovarci i cugini».

E poi c’era la scuola della missione. Ogni giorno Elsie e i suoi fratelli la raggiungevano a piedi: «Un’ora di cammino tra sabbia, rocce e il fiume da attraversare, fino alla classe sesta». Ma la famiglia restava il mondo di riferimento: «Oltre a lavorare i campi, papà faceva il pescatore e regolarmente doveva andare in città per vendere il pesce. A volte lo accompagnavamo: caricavamo i bagagli su una piccola barca e poi, raggiunta la baia di Milne, prendevamo un’auto per arrivare ad Alotau, dove c’era il mercato».

La vita, in casa, era permeata dalla fede cristiana. «Mia madre era una fervente cattolica, e tutti noi figli abbiamo ricevuto il Battesimo nella sua Chiesa, mentre mio padre era pastore di una denominazione metodista pentecostale. Spesso lui ci leggeva brani della Bibbia e ce li spiegava, e noi bambini condividevamo ciò che ci toccava di più della Scrittura. Nel villaggio poi c’era un gruppo di preghiera che alla sera si riuniva nelle case dei partecipanti, mentre alla domenica frequentavamo la parrocchia cattolica: anche se non era presente il sacerdote i laici e i catechisti presiedevano la celebrazione e ricevevamo l’Eucarestia».

Un “ecumenismo quotidiano” che però, qualche volta, ingenerava tensioni: «Mamma era solita recitare il rosario ed era molto devota alla Madonna, tanto che era abituata a portare sempre con sé, nella borsetta, una piccola statua di Maria. Una cosa che indispettiva mio padre, il quale a volte in preda alla rabbia rompeva la statuetta… Alla fine lei ne otteneva sempre una nuova da qualche suora, però noi figli che assistevamo a questi litigi ne soffrivamo».

Completata la scuola primaria, Elsie si trasferì a Watuluma, sull’isola di Goodenough, per frequentare le medie nella struttura gestita dalle Missionarie dell’Immacolata. «Lì conobbi per la prima volta l’Istituto e le sue suore, che operavano nella scuola e nell’ospedale della missione, e ne rimasi colpita. Ricordo una consorella indiana che, nonostante l’età già avanzata, continuava ad andare nei villaggi a fare catechismo e a visitare gli anziani, muovendosi con l’aiuto di un bastone: era sempre sorridente, si fermava a scherzare con noi e trasmetteva una grande gioia… Una cosa che mi entrò nel cuore».

E così la ragazzina, che già dall’età di cinque o sei anni aveva deciso che sarebbe diventata una suora, pensò che non avrebbe scelto una congregazione locale ma queste missionarie che davano la loro vita per annunciare la gioia del Vangelo in tutto il mondo. Ma tra Elsie e il suo sogno, così chiaro nel suo cuore, erano destinati a frapporsi non pochi ostacoli.

«A quattordici anni confidai i miei progetti a mia madre, che ne fu felice, ma non ebbi il coraggio di parlarne a papà. Lui, infatti, mi ripeteva sempre che, essendo la prima figlia, avevo il dovere di sposarmi e di occuparmi dei miei fratelli. Ero angosciata. Mentre si avvicinava la data che doveva essere quella della mia partenza, per due settimane ogni notte, mentre mio padre era fuori a pescare, io e mamma rimanevamo sveglie a pregare. Poi, quando ormai mancavano solo due giorni, lei mi disse: “Ora devi parlargli”. Io, raccolto tutto il coraggio che avevo, lo feci. Ma papà reagì molto male. Mi disse: “Non puoi fare questo!”. E poi, per tre volte, mi ripeté la stessa domanda: “Perché?”. Io piangevo, lo supplicavo e alla fine lui cedette, ma disse una frase che mi lasciò molto scossa: “Va bene, fai quello che vuoi, ma quando moriremo non ci prenderemo cura reciprocamente delle nostre anime”. Nella nostra cultura, era un modo per dire che il nostro rapporto si era definitivamente rotto».

Nonostante il dolore di questo strappo, e un trauma che avrebbe tenuto nascosto nel cuore per diversi anni prima di riuscire ad affrontarlo, Elsie proseguì per quella che era convinta essere la sua strada. Si trasferì ad Alotau, per seguire la formazione, e dopo due anni raggiunse Vanimo, per il periodo da postulante e da novizia. «Il 16 agosto 2008 feci la prima professione e diventai suora», racconta con soddisfazione.

Seguirono due anni di esperienza pastorale nella comunità Fatima di Mount Hagen e ancora a Vanimo, e poi il ritorno ad Alotau per proseguire gli studi fino alla dodicesima classe presso la Sacred Heart High School. A quel punto, la bambina del villaggio era pronta per l’università: «Frequentai la Holy Trinity Teachers Training a Mount Hagen per diventare insegnante».

Arrivò così il 2015. «Era il momento di prepararsi alla professione perpetua. Con le altre ragazze che stavano seguendo il percorso di formazione insieme a me partimmo per l’India». Un nuovo pezzo di vita che per suor Isikeli fu particolarmente intenso. Nove mesi di viaggi per visitare tutte le comunità dell’Istituto nel vasto Paese: 23 presenze tra Delhi e Vijayawada, Hyderabad e Siliguri.

«Un’esperienza che ha aperto la mia mente sulla missione e sul mondo», racconta la religiosa papuana. «Ho visto la povertà e insieme la ricchezza culturale nella vita quotidiana della gente, e l’opera delle sorelle nei villaggi».

Ma l’India, per Elsie, si sarebbe rivelata una tappa fondamentale anche per un’altra preziosa opportunità: «Oltre a tre mesi di preparazione a Siliguri, abbiamo potuto seguire un corso in una struttura dei Gesuiti a Bangalore. Due mesi e mezzo di formazione con la direzione spirituale di sacerdoti che incentivavano ognuna di noi a confrontarsi sulle esperienze e le emozioni della giornata, ad aprirsi se vivevamo problemi e fatiche… Per me fu il momento, dopo anni di silenzio sul mio dolore interiore, di non nascondere più ciò che sentivo e di affrontare quel trauma. Prima non volevo parlarne, perché altrimenti scoppiavo a piangere. Ma proprio lasciando uscire le lacrime nel dialogo con un sacerdote sono finalmente riuscita a esprimere quello che bloccava il mio cuore e la mia vita». L’inizio di una svolta.

Quando, il 17 aprile del 2016, per suor Elsie è arrivato il momento della professione perpetua nella sua diocesi ad Alotau, alla liturgia di ringraziamento era presente anche suo padre, che poi ha recitato il Rosario insieme a tutta la famiglia per affidare alla Madonna la vocazione della figlia.

Con uno spirito più sereno la neo missionaria poteva prepararsi a un nuovo cambiamento: il trasferimento a Roma. Un anno per imparare la lingua e ambientarsi al nuovo contesto – «il cibo differente non mi creava particolari problemi, ma nei primi mesi invernali ho sofferto molto il freddo!» – e poi tre anni di studio all’università Angelicum fino al Baccalaureato in Scienze religiose, conseguito lo scorso giugno.

E finalmente, dopo lo scoglio del Coronavirus, la missione. «Io avevo pensato a Hong Kong, ma quando la superiora mi ha annunciato che ero stata destinata al Bangladesh le ho detto: “Madre, in qualunque posto dovrò andare, io sono contenta!”». E lo è davvero, suor Elsie, che non vede l’ora di affrontare le sfide che l’attendono: «Prima di tutto dovrò imparare due nuove lingue, poi mi piacerebbe lavorare con i bambini, nelle scuole, visto che ho studiato da insegnante. Ma sarà quello che Dio vorrà. Non progetto cose straordinarie, voglio solo mostrare con la mia vita, le mie azioni, le mie parole l’amore di Gesù alla gente che incontrerò».