Il 3 agosto gli yazidi hanno ricordato le 3200 donne prigioniere in Siria, rapite due anni
Mancano ancora 3200 donne e bambine all’appello. Sono yazide, rese schiave in Siria dall’Isis. In nome loro, il 3 agosto scorso, i rifugiati yazidi e i loro sostenitori si sono riuniti davanti alla Casa Bianca a Washington, accendendo ceri per ricordarle. Lo stesso gesto è stato compiuto ovunque gli yazidi sopravvissuti abbiano avuto la possibilità di farlo.
La data del 3 agosto ha un forte valore simbolico. Due anni fa, nel 2014, l’Isis conquistò la città di Sinjar, capitale della minoranza yazida in Iraq (poi ripresa dai peshmerga curdi nel novembre 2015). L’Isis nutre un odio particolare nei confronti degli yazidi, considerati “adoratori del diavolo”. Con la presa di Sinjar, 5000 uomini yazidi vennero uccisi e 7000 donne e bambini furono catturati.
La strategia dell’Isis nei confronti degli yazidi, tuttora in vigore, nel giugno scorso è stata riconosciuta dalla Commissione d’inchiesta delle Nazioni Unite sulla Siria come genocidio, secondo quanto previsto dalla Convenzione internazionale del 1948. “L’Isis ha cercato di cancellare gli yazidi attraverso uccisioni, schiavitù sessuale, schiavitù, tortura, trattamenti disumani e degradanti e trasferimenti forzati (…); l’inflizione di condizioni di vita che portano a una lenta morte; l’imposizione di misure per prevenire la nascita di bambini yazidi, incluse la conversione forzata dagli adulti, la separazione di uomini e donne, e il trauma psichico; il trasferimento dei bambini yazidi dalle loro famiglie ai guerrieri dell’Isis, recidendo il legame con il loro credo e le pratiche della loro comunità religiosa”. Così recita il rapporto della Commissione, di cui ha fatto parte anche la magistrata Carla Del Ponte, che è stata presidente del Tribunale Penale Internazionale per l’ex Jugoslavia.
Le testimonianze raccolte grazie a chi è riuscito a fuggire sono agghiaccianti. Bambine di otto-nove anni vendute come prede sessuali; ragazzine passate di mano in mano tra i combattenti dell’Isis, come se fossero oggetti, per essere violentate; donne adulte e anziane massacrate perché non appetibili come schiave sessuali; bambini concepiti con la violenza e poi strappati alle madri. In un’intervista al quotidiano inglese Guardian, Nihad Alawsi, rapita dall’Isis all’età di 15 anni, racconta di essere rimasta incinta e di aver dato alla luce un bimbo. A quel punto, il suo violentatore l’ha trasferita a casa di un cugino, dove la moglie di costui e un vicino l’hanno aiutata a fuggire. Nihad è stata davvero fortunata: ha persino ritrovato i suoi genitori, ancora vivi, in un campo profughi. Ma molte ragazze non ce la fanno a resistere. I tentativi di fuga senza successo vengono puniti con botte e nuove violenze, e a volte anche con stupri di gruppo. Alcune giovani non reggono questo inferno e si suicidano. D’altronde, come testimonia Nihad, come si fa a sopravvivere quando la tua vita si riduce a essere una continua violenza sessuale? Durante la prigionia, la giovane yazida ha incontrato una ragazza passata di mano fra 15 uomini diversi.
Tremiladuecento ragazze yazide, ammesso che siano ancora vive, sono ancora in mano all’Isis in Siria. La brutalità dello Stato islamico nei confronti degli yazidi dovrebbe essere punita dalla giustizia internazionale. Ma c’è scarsa comprensione verso questa antica comunità, che si prostra verso il Sole ogni giorno, venera un angelo pavone e prega un Dio ritenuto inconoscibile. Una minoranza pacifica e chiusa in sé stessa– gli yazidi non fanno proselitismo – erede di antichi culti assiri e babilonesi. Lo yazidismo è sopravvissuto per secoli, in buoni rapporti con un’altra minoranza in Iraq, quella cristiana, ma ora rischia di sparire. I profughi nei campi e nei centri di accoglienza all’estero convivono a fatica con i musulmani, che giustamente considerano i loro aguzzini. Donne e uomini presentano i sintomi di chi ha vissuto una persecuzione: attacchi di panico, depressione, disturbi post traumatici da stress. Per non parlare del dramma delle ragazzine violentate dall’Isis. Qualora si siano salvate, devono affrontare lo stigma sociale della perdita del
proprio onore. Chi non regge la vergogna, a volte tenta il suicidio o si autoinfligge ferite. E così, l’Isis continua la sua opera di distruzione anche a distanza, grazie alla devastazioni psicologiche è riuscito a infliggere alle sue vittime.