Lo scontro tra potenze politiche sciite e sunnite sta insanguinando ogni giorno di più il Medio Oriente. Con strumentalizzazioni sempre più evidenti di una frattura storica che non è più un problema solo dei musulmani. E se il cammino ecumenico dei cristiani avesse qualcosa da insegnare?
La notizia del giorno è la visita in Italia del presidente iraniano Rouhani, che tra poche ore vedrà anche papa Francesco. In rete non manca chi ci ricorda tutte le contraddizioni del regime iraniano che un’intesa non basta certo a cancellare. Sul versante opposto c’è chi – nel clima generale di corsa verso Teheran che sta accompagnando l’accordo sul nucleare – si è spinto a immaginare addirittura un viaggio del Papa in Iran. Staremo a vedere. Personalmente, però, ho un sogno un po’ diverso.
Mi piacerebbe che la visita a Roma di Rouhani diventasse l’occasione per una riflessione un po’ più schietta: quella sul grande conflitto che attraversa oggi il Medio Oriente e vede schierati su fronti contrapposti l’Iran e l’Arabia Saudita. Un conflitto che ogni giorno che passa strumentalizza in modo più evidente la storica frattura interna all’islam, quella tra sciiti e sunniti. Gli ultimi mesi sono stati terribili da questo punto di vista: persino il pellegrinaggio alla Mecca è divenuto ostaggio di questo conflitto. Per non parlare della carneficine quotidiane che si consumano in Siria, in Iraq o nello Yemen.
Se parliamo di una Guerra mondiale a pezzi – come è solito fare il Papa – dobbiamo avere anche il coraggio di riconoscere che il conflitto tra sciiti e sunniti vi gioca un ruolo non secondario. E dunque la domanda diventa: possiamo continuare a considerarlo una vicenda solo interna al mondo musulmano?
La verità è che oggi avremmo bisogno tutti di musulmani sciiti e sunniti coraggiosi, capaci di sfilarsi dal gioco degli interessi politici, per affermare una fratellanza più forte di ogni divisione dottrinale. È un’idea che vi ricorda qualcosa? Già. È un profilo che assomiglia molto al cammino ecumenico che, a partire dal ventesimo secolo, pur tra mille difficoltà, i cristiani hanno cercato di portare avanti. Proprio oggi – 25 gennaio, festa della Conversione di San Paolo – abbiamo vissuto il suo giorno simbolo con la conclusione della settimana che vede uniti almeno nella preghiera i cristiani di tutto il mondo. Proprio oggi il Papa ha annunciato che a ottobre si recherà in Svezia per una celebrazione in occasione dei 500 anni della Riforma di Lutero. E ha chiesto perdono ai fratelli delle altre confessioni cristiane per i comportamenti non evangelici compiuti dai cattolici. Due cose impensabili anche solo qualche decina di anni fa.
Allora mi chiedo: a quando qualcosa di simile nel mondo musulmano? Non sarebbe forse questa la risposta più forte possibile oggi alla deriva settaria che sta travolgendo il Medio Oriente? Una risposta non sincretistica, ma fatta di accettazione reciproca anche nelle differenze?
Non si tratta di un’idea così nuova: ci sono stati già vari tentativi nel corso del XX secolo per un ecumenismo islamico. Il più famoso è quello che vide protagonisti – tra gli anni Cinquanta e Sessanta – lo sheikh di al Azhar, Mahmud Shaltut, e lo sciita libanese Muhammad Jawad Mughniyya. Decisamente più interessato, poi, arrivò l’ecumenismo islamico sponsorizzato dagli ayatollah iraniani dopo la rivoluzione del 1979, curiosamente concretizzatosi proprio in una «settimana per l’unità» tra i musulmani, che non poteva evidentemente riscuotere grandi successi nella Penisola arabica. Più recente (e più interessante) è stata infine l’iniziativa del Messaggio di Amman, promossa nel 2004 da quello stesso ambiente accademico legato alla famiglia reale giordana all’interno del quale tre anni dopo sarebbe anche maturata la lettera dei 138 saggi musulmani sul dialogo islamo-cristiano. Il Messaggio di Amman voleva essere un documento per un riconoscimento reciproco tra le principali scuole interpretative del Corano, tanto sunnite quanto sciite; con annessa l’affermazione del divieto di pronunciare scomuniche reciproche. Sulla carta in tanti lo hanno firmato (compresa la Guida suprema iraniana Khamenei e l’influente tele predicatore sunnita Yusuf al Qaradawi). Ma si è rivelato un semplice pezzo di carta, appena la tempesta politica è tornata ad abbattersi davvero sul Medio Oriente.
Il punto probabilmente sta proprio qui: l’ecumenismo musulmano non lo può promuovere chi ha interessi politici in gioco. Può nascere solo dal basso. Tra persone che si rispettano accettando le differenze. In fondo, anche tra i cristiani non è stato così? E non potrebbe essere questa la vera sfida oggi per quella generazione di musulmani uscita sconfitta dalle piazze del Medio Oriente, ma rimasta lontana anni luce dalla follia fondamentalista? I giovani della primavera iraniana del 2009 non erano diversi da quelli che esattamente cinque anni fa riempivano piazza Tahrir al Cairo. Alla fine hanno perso entrambi. Ma se imparassero a guardarsi in faccia, forse oggi qualcosa potrebbe cominciare a cambiare davvero.